Chi vince e chi perde nella vicenda di Julian Assange

Il patteggiamento con il quale gli USA hanno deciso di scrivere la parola fine (almeno per ora) sulla vicenda di Julian Assange evidenzia ancora una volta, e in modo esemplare, quanto sia illusorio pensare che il diritto rappresenti una forza alla quale tutti, Stati compresi, devono sottomettersi di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon-Italian Tech

Nei corsi di laurea in giurisprudenza si insegna che questa “forza” si chiama rule of law, il primato della legge, la cui nascita, secondo alcuni, risale alla Magna Charta inglese del 1215, anche se un po’ prima, nel 66 a.c., Cicerone scriveva che “dobbiamo essere servi della legge per poter essere liberi”.

Nella realtà della contesa (geo)politica, prevale invece un altro concetto, anch’esso caro agli antichi romani e che sempre più spesso viene apertamente applicato nel diritto internazionale: necessitas non habet legem— il bisogno non ha regole.

La cinica applicazione di questo principio è parte di quella chiave di lettura delle relazioni internazionali che si chiama realismo politico, secondo la quale gli Stati —ma anche gli organismi internazionali e a-nazionali— competono fra loro per soddisfare i propri interessi e proteggere la propria esistenza utilizzando tutti gli strumenti che hanno a disposizione, compresa la guerra che, citando l’abusatissima espressione di von Clausewitz, è soltanto la prosecuzione della politica ma con altri strumenti.

Letto da una prospettiva strettamente giuridica, il caso di Assange è abbastanza lineare.

Una persona, da sola o insieme ad altre, mette in piedi un’organizzazione per agevolare la diffusione anonima di informazioni destinate ad essere segrete.

Alcune erano prove di crimini, altre di illeciti meno gravi, altre ancora —semplicemente— destinate a non essere divulgate.

L’organizzazione si relaziona(va) con le fonti, ne protegge(va) l’anonimato, e ne valutava il “tesoro informativo” decidendo in alcuni casi se e a chi consentire un accesso privilegiato prima di rendere definitivamente pubblico il materiale.

Al netto delle peculiarità dei singoli ordinamenti giuridici, è abbastanza chiaro che il modo in cui opera(va) Wikileaks costituisce un’associazione a delinquere diretta alla violazione delle differenti normative sul segreto e che, dunque, la responsabilità penale di tutti coloro che hanno partecipato all’attività è difficilmente evitabile (un po’ diverso è il caso di chi ha riutilizzato quelle informazioni —la grande stampa internazionale— perché una volta diffuso pubblicamente, anche il segreto più inconfessabile diventa oggetto di cronaca).

Ma, si difende Assange (peraltro, l’unico ad avere pagato personalmente), è vero che abbiamo messo in piedi una piattaforma che favorisce la diffusione di informazioni segrete anche relative ad attività critiche per Stati e cancellerie, ma lo abbiamo fatto in nome del diritto dei cittadini a conoscere i fatti del potere e per consentire un effettivo controllo democratico sul modo in cui sono assunte le decisioni politiche. Abbiamo violato la legge, potrebbe dunque dire Assange, in nome di un “bene superiore”.

Un approccio del genere non è affatto nuovo. Per limitarci alla storia patria, basta pensare alle battaglie politiche su divorzio, aborto e —oggi— fine vita per capire come il perseguimento di un obiettivo politico possa essere perseguito anche mettendo in crisi il sistema ritorcendogli contro i suoi poteri.

Dunque, e qui sta il punto, accettando di sottomettersi alla decisione di un tribunale, chi ha commesso un fatto previsto dalla legge come reato considerato politicamente non più da ritenere tale, costringe lo Stato a schierarsi, assumendosi la responsabilità della scelta.

Se la società nel suo complesso ha maturato la convinzione che l’eutanasia debba essere riconosciuta come diritto, una sentenza che assolve chi ha accompagnato persone sofferenti nell’ultimo viaggio manda un messaggio chiaro al legislatore: quel diritto “sociale” deve diventare un diritto “legale” —cioè formalmente riconosciuto. Questo è il modo in cui funziona un sistema democratico occidentale.

Se invece, come nel caso di Assange, da un lato si invoca il “diritto di sapere” ma in nome di questo diritto si rivendica quello di non essere processati perché il fatto è stato commesso in nome di un “bene superiore” allora qualcosa non funziona e il meccanismo si grippa.

I sistemi giudiziari sono tutt’altro che perfetti, ma assolvono sostanzialmente alla funzione di bilanciare interessi contrapposti —quello del cittadino a muoversi nei confini della legge, quello dello Stato a proteggere la propria sopravvivenza e quella dei consociati.

Perché il sistema funzioni, ed è questo il senso del rule of law, è necessario che tutti giochino seguendo le stesse regole, altrimenti si rompe il patto sociale e il mondo (libero) precipita in una condizione di totale incertezza e imprevedibilità.

Detta in altri termini, invece di sottrarsi al processo, Assange avrebbe dovuto accettare il processo, sostenere le proprie idee davanti a un giudice e lottare per affermare un principio che, se riconosciuto, avrebbe cambiato la storia per sempre.

Ma, sostengono i suoi difensori, come è possibile pensare che un processo del genere sarebbe stato equo? Quando il tuo accusatore è il Paese più potente del mondo, come si fa anche solo a immaginare che il verdetto possa essere favorevole all’imputato? È chiaro che l’opzione di giudicare Assange davanti a un tribunale non può nemmeno essere presa in considerazione.

Gli argomenti possono essere suggestivi ma, come si direbbe appunto in tribunale, spiegano troppo e sono contraddetti dalla vicenda di Daniel Ellsberg, la “talpa” che rivelò i segreti delle scelte politiche statunitensi sulla guerra del Vietnam. Ellsberg, infatti, venne sì processato per avere violato importantissime informazioni confidenziali, ma non venne condannato perché i suoi diritti, durante le indagini, vennero violati e dunque le prove non potevano essere presentate al giudice.

Comunque la si pensi sugli Stati Uniti, un sistema nel quale il potere giudiziario ha dimostrato questo livello di autonomia da quello politico rappresenta una garanzia intrinseca del fatto che le ragioni di Assange sarebbero state scrupolosamente prese in considerazione e che l’esito del processo non sarebbe già stato scritto.  

Se fosse stato celebrato, quello di Assange sarebbe stato un processo di portata epica. Si sarebbero scontrate, con esito incerto, due opposte visioni della società e quale che fosse il verdetto, si sarebbe creata una spaccatura molto netta fra i cittadini americani e l’esecutivo, ma anche fra quelli di altri Paesi e i loro governi che erano parte, anche passiva, dei fatti rivelati da Wikileaks.
Ecco dove entra in gioco la considerazione che apre questo articolo, sul fatto che le necessità della politica prevalgono sulla formalità del diritto.
Evitare il processo non era soltanto un interesse di Assange ma anche dell’esecutivo che, in questo modo, non solo ha evitato di rimettere al centro dell’attenzione internazionale i segreti rivelati da Wikileaks, ma ha anche evitato la propalazione di ulteriori informazioni sul modus operandi delle strutture governative e, soprattutto, scongiurato il rischio (forse minimo, ma esistente) che una sentenza scardinasse l’impianto politico della gestione dei segreti da parte dei governi.

Non è un caso, quindi, che il caso di Assange si sia concluso con un patteggiamento, cioè con una soluzione pragmatica che lascia libero l’accusato dopo averlo tenuto in reclusione prima formale e poi anche sostanziale per oltre dieci anni, ma che, nello stesso tempo, evita che un giudice possa entrare nel merito del modo in cui un esecutivo applica le proprie strategie di sicurezza nazionale.

Questa vicenda, in definitiva, ha due non-vincitori e uno sconfitto. I primi, per le ragioni appena esposte, sono senz’altro il governo USA e Julian Assange; il secondo è lo Stato di diritto che è stato battuto non solo dalle necessità della realpolitik, ma anche dalla pretesa arrogante della democrazia diretta tecnologicamente mediata che pretende di intervenire a livello globale in nome di überdiritti, cioè di pretese soggettive che, per ciò solo, dovrebbero essere riconosciute come prevalenti contro tutto e tutti.

Né più, né meno di quanto accade con un fede religiosa radicale, integralista e violenta.

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