Il contributo delle telecamere —o meglio, dei sistemi— di videosorveglianza è stato fondamentale per identificare il sospettato del tentato omicidio di una turista commesso a Roma sul finire del 2022. Questo ha rianimato la polemica sull’uso delle tecnologie del controllo e sui “rischi per la privacy” generati dalla creazione di una società della sorveglianza “con la scusa della sicurezza”. Almeno in questo caso i solerti “difensori della privacy” sono stati costretti, obtorto collo, ad accettare il fatto che non tanto le telecamere di per se stesse quanto la possibilità di estrarre informazioni dalle videoriprese sia stata risolutiva per identificare un sospettato. Di fronte all’evidenza dei fatti, costoro arretrano di qualche passo ma non rinunciano a denunciare il pericolo della sorveglianza di massa che rimane pericolosissima specie —ovviamente— quella realizzata “grazie all’AI” di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech
Siamo di fronte a una posizione concettualmente, giuridicamente e fattualmente discutibile, costruita sulla paranoia per la privacy ereditata dall’antropologia statunitense, sulla “sindrome di Frankenstein” —la paura che il “monstrum” si ribelli al proprio creatore— e sull’applicare un “principio di precauzione”, privo di qualsiasi fondamento oggettivo, in base al quale l’occasione fa lo Stato spione. Non è così negli Stati democratici, certamente non in Italia, ma questo non ha impedito la creazione di un vasto fronte pubblico e privato contrario “a prescindere” alle tecnologie che consentono di identificare le persone riprese in un video. Una posizione che si comprende intuitivamente, ma che non per questo diventa corretta.
Partiamo da una considerazione fattuale.
I sistemi di videosorveglianza sono diventati strumenti da utilizzare dopo che il fatto è stato commesso. Servono sempre meno a prevenire e sempre di più a indagare. Non evitano che i buoi escano dalla stalla, ma aiutano —teoricamente— a ritrovarli. Certo, ci sono servizi che promettono di usare le tecnologie del riconoscimento e dell’analisi di eventi per generare allarmi in tempo reale o seguire cose e persone. Per sfruttarli, tuttavia, bisogna avere abbastanza capacità di risposta per “stare su tutte le palle”. Serve a poco avere uno strumento del genere se poi non c’è abbastanza personale per intervenire.
Questa considerazione non tranquillizza i solerti difensori della privacy, secondo i quali anche la sola possibilità del riconoscimento a posteriori rappresenta un rischio per la democrazia perché rinforza l’apparato della sorveglianza globale. Tuttavia, diversamente da quanto accade in altri Paesi, nonostante la fattibilità tecnica della sorveglianza di massa, dalle nostre parti l’incubo non si è mai materializzato. Come mai?
Non molti —nemmeno fra gli addetti ai lavori— sono realmente consapevoli di quanto in Italia siano estesi i poteri di sorveglianza e controllo del Ministero dell’interno e delle forze di polizia. Oggi —si, oggi, nel 2023— sulla base del semplice sospetto un ufficiale di pubblica sicurezza può fermare chiunque e chiedergli di identificarsi. L’assenza di documenti di identità o il sospetto che siano falsi consente l’ “accompagnamento” negli uffici di polizia per prendere le impronte digitali e procedere alla fotosegnalazione. Anche l’Italia ha la propria banca dati del DNA, dove finiscono i campioni genetici dei condannati, e il RIS dei Carabinieri ne ha gestite in proprio. Al netto delle misure di contrasto al COVID, non si può andare in giro travisati o mascherati, ostacolando la possibilità di riconoscimento. Sarà un caso, ma nei recenti scontri fra tifoserie avvenuti sull’A1, i facinorosi erano vestiti tutti allo stesso modo, forse perché così non sarebbe stato facile, riesaminando i video degli scontri, capire “chi” avesse fatto “cosa”. L’attività informativa della DIGOS è continua e costante. Nel 2001 il Garante dei dati personali “scoprì” che l’Arma dei Carabinieri conservava un esteso archivio di “pratiche personali permanenti” ma dovette prendere atto che si trattava di attività del tutto lecita. Il database dei precedenti di polizia è una fonte inesauribile di informazioni, come anche l’obbligo di comunicazione dei documenti degli ospiti degli alberghi e degli acquirenti di SIM. Il sospetto che in un luogo privato si stia consumando un traffico di droga o armi consente l’accesso anche senza un ordine del giudice e in casi di urgenza —dice l’articolo 321 del Codice di procedura penale— sempre senza ordine del giudice la polizia giudiziaria può ordinare il blocco degli accessi a risorse di rete (salvo poi far convalidare l’atto). E non apriamo il capitolo di quello che è possibile fare quando si devono eseguire intercettazioni telefoniche, telematiche o ambientali. L’anagrafe tributaria, alla quale accede anche la Guardia di finanza, è uno strumento potentissimo per la definizione del “profilo fiscale” di ciascuno di noi e se venisse usato in modo più esteso, incrociandola con il PRA, il catasto e la conservatoria dei registri immobiliari aiuterebbe a vibrare un colpo micidiale all’evasione (ma non si può “perché c’è la privacy”). Fino a non tantissimo tanto tempo fa, era obbligatorio denunciare in prefettura la detenzione di “archivi magnetici” e qualche tempo prima, durante gli Anni di piombo, le forze di polizia hanno ricevuto poteri speciali. Se a questo aggiungiamo le informazioni che si possono estrarre dagli altri database privati, come ad esempio quelli delle centrali rischi bancarie e assicurative, non c’è bisogno del riconoscimento facciale biometrico “AI-powered” per trasformare l’Italia in uno Stato di sorveglianza.
Nonostante tutto questo, l’Italia di oggi è un Paese che, a differenza di altri a Est e a Ovest, non pratica la sorveglianza di massa come strumento per la tutela della “sicurezza nazionale”. Dunque, non ci sono elementi fattuali e riscontri sui “pericoli” derivanti da “possibili” abusi dell’esecutivo rispetto all’utilizzo dell’apparato di sorveglianza e controllo a disposizione delle forze di pubblica sicurezza. Viene quindi da chiedersi perché anche nel nostro Paese si è diffusa la paranoia che provoca l’allucinazione di vedere il Central Scrutinzer spuntare da ogni angolo di strada —pardon, da ogni finestra di un profilo social o di un sito web.
Le ragioni sono svariate e non sempre frutto di —pur a volte nobili— ossessioni ideologiche. Da un lato, innegabilmente, fomentare la paura della sorveglianza di massa è servito per costruire carriere professionali, accademiche e commerciali. Dall’altro, l’isteria è stata alimentata dal contraddittorio atteggiamento di chi vuole a tutti costi essere certificato come “esistente in vita” rendendo disponibili anche i particolari più insignificanti della propria grigia routine quotidiana, ma nel frattempo non sopporta l’idea che qualcuno possa avvantaggiarsene accumulando informazioni. Più ancora, però, è la sfiducia nelle istituzioni a costituire le fondamenta sulle quali costruire il muro per tenere lontana la tecnologia del riconoscimento biometrico.
Se questa sfiducia può essere condivisa verso Paesi nei quali anarchia e individualismo esasperati sono elementi costitutivi dello zeitgeist, o dove molto poco ipocritamente “Might is Right”, lo stesso approccio non può valere automaticamente e trasversalmente in altri Stati più culturalmente e giuridicamente evoluti come l’Italia.
Con tutti i limiti e i problemi del nostro sistema giustizia, sorveglianza e pubblica sicurezza sono fortemente giurisdizionalizzate. Tradotto dal legalese, questo significa che oggi anche volendo il Ministero dell’interno non potrebbe gestire un apparato del genere in totale autonomia perché è sempre possibile —e dovuto— il controllo da parte della magistratura. Di conseguenza, non ci sono e non ci possono essere pregiudiziali astratte di nessuno tipo nell’impiego da parte delle autorità di sistemi tecnologici anche basati sul trattamento di dati biometrici o sulla loro analisi tramite AI. Con buona pace (dei non disinteressati sostenitori) del GDPR e normative analoghe. Certo, errori e abusi anche in ambito privato sono sempre possibili, ma rappresentano l’eccezione, non la regola e pertanto non si può parlare di un “pericolo per la democrazia” collegato agli algoritmi di riconoscimento.
Un riscontro empirico dell’assenza di correlazione fra sorveglianza di Stato e pericolo per la democrazia arriva dal modo in cui, a differenza dell’Italia, Taiwan e Corea del Sud hanno gestito il contact tracing per il COVID. Il diffuso e tremendamente efficace sistema di raccolta e analisi dei dati relativi agli spostamenti dei cittadini ha consentito l’adozione di misure che hanno salvato innumerevoli vite ma in alcun modo ha originato derive antidemocratiche o autoritarie. Da noi, invece, un contact tracing efficace è stato impossibile “perché c’è la privacy”.
È chiaro —ma evidentemente non abbastanza— che non è lo strumento a mettere in pericolo i diritti e le libertà fondamentali dell’individuo, ma lo scarso livello di tenuta democratica delle istituzioni e, in definitiva, l’insufficiente esercizio, da parte degli individui, dei diritti connessi allo status di cittadino. È altrettanto chiaro —ma evidentemente non abbastanza— che non è la diffusione di paranoia complottista, ma l’educazione alla cultura democratica a proteggere i diritti delle persone. È altrettanto chiaro —ma evidentemente non abbastanza— che non è un dibattito pubblico basato su presupposti indimostrati, ma il confronto con la realtà effettuale a consentire di adottare scelte difficili con tutta la necessaria attenzione.
In conclusione, bisogna prendere atto che nel corso degli anni, le forze di polizia sono molto cambiate e che i tempi dell’Ufficio Affari Riservati e del Golpe Borghese, per quanto vicini, sono oramai consegnati alla Storia. Dunque, detto senza mezzi termini, se veramente qualcuno pensa che nel nostro Paese ci sia un “pericolo sorveglianza di massa” allora ne tragga le necessarie conseguenze: impugni un AK47 giocattolo, indossi un passamontagna di carta velina ed entri in clandestinità con un account semianonimo su qualche social network, insieme a Napalm51 e ai suoi amici, non prima di avere dato il consenso all’installazione di cookie e a profilazioni varie. Hai visto mai che nel frattempo arrivasse qualche offerta vantaggioso per comprare l’ennesimo nuovo e inutile gadget da sfoggiare nella prossima story o in post con qualche azzeccato hastag.
Possibly Related Posts:
- Chi ci protegge dal dossieraggio tecnologico?
- Webscraping e Dataset AI: se il fine è di interesse pubblico non c’è violazione di copyright
- Perché Apple ha ritirato la causa contro la società israeliana dietro lo spyware Pegasus?
- Le sanzioni UE ad Apple e Google aprono un altro fronte nella guerra contro Big Tech (e incrinano quello interno)
- La rottura tra Stati e big tech non è mai stata così forte