Ogni volta che una questione politica interseca questioni di diritto i partigiani dell’una o dell’altra fazione invocano il parere del “giurista” (magari compagno di partito, di coalizione o temporaneo alleato di convenienza).
Per amore di precisione, è opportuno ricordare che essere avvocato, giudice o pubblico ministero non significa necessariamente essere “giurista”. Non a caso queste categorie vengono chiamate in gergo (un po’ dispregiativo) “pratici”. Nemmeno i docenti univeristari sono sempre “giuristi” perchè a fianco di quelli che cercano di comprendere il sistema e dargli un senso, ci sono quelli che si limitano a un’attività compilativa. Invece di innovare, raccolgono e coordinano idee altrui. Ma, tutto sommato, anche questa è un’attività utile.
A prescindere dalle appartenenze professionali, giurista è chi studia il diritto non chi semplicemente lo applica, magari usando la giurisprudenza maggioritaria, senza esercitare alcuna riflessione critica. È la differenza fra architetto e muratore. Si può essere un ottimo muratore, ma non per questo si viene promossi “architetto sul campo”.
Essere “giurista”, tuttavia, è sempre più difficile. Da tempo la giurisprudenza “condanna” l’utilizzo di interpretazioni evolutive delle norme o contrarie al “comune orientamento delle Sezioni Unite”. E’ vero che a volte si leggono interpretazioni “eroiche” e come tali da stigmatizzare, ma il diritto non è inciso nel marmo e non si può negare, a priori, la possibilità di “rileggerlo” specie quando è in gioco il diritto di difesa.
Imporre per sentenza la rinuncia al pensiero critico ha due vantaggi, uno teorico e uno pratico. Quello teorico è che è più facile impostare, gestire e decidere le cause. Quello pratico è che la “patente di giurista” – da esibire alla bisogna – può essere attribuita con maggiore facilità.
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