(Presidente F. Marrone – Relatore P.A. Bruno)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 7 novembre 2000, il G.I.P. del Tribunale di Palermo, pronunciando con le forme del rito abbreviato, dichiarava G. N. , l’avv. S. D. M., Q. D., I. S. e C. C. responsabili dei delitti loro rispettivamente ascritti e li condannava alle pene di seguito indicate.
In particolare, i primi quattro imputati erano ritenuti colpevoli del reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, ai sensi dell’art. 416, comma primo, c.p., operante in Brancaccio, e facente parte dell’organizzazione intesa Cosa Nostra.
Il C., invece, era ritenuto responsabile del reato di cui agli artt. 110, 81 cpv e 73, comma primo, DPR n. 309/1990 con l’accusa di avere rifornito di droga l’avv. S., legale dei germani F. e G. G. , considerati ai vertici dell’anzidetto sodalizio mafioso.
In via di estrema sintesi, i titoli di partecipazione al sodalizio si fondavano sulle seguenti risultanze di fatto, acquisite in esito ad una complessa attività investigativa:
G. N., sorella degli anzidetti G. , era accusata di avere gestito il cospicuo patrimonio dell’omonima cosca mafiosa, nel periodo di tempo in cui i germani, ristretti in carcere e sottoposti al severo regime dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, erano impossibilitati a provvedervi di persona. In particolare, unitamente delle cognate G. R. e B. F., aveva lasciato Palermo e si era trasferita a Nizza, ove aveva avviato le pratiche burocratiche per stabilire definitivamente la residenza in quella città. In tale iniziativa, era stata appoggiata da P. G., commercialista di Palermo, che, oltre a provvedere alla sistemazione logistica delle donne, aveva avviato l’acquisto in quella stessa città, con danaro dei G. , di un ufficio di cambio, con quote intestate a proprio nome ed a nome dell’avv. D. S., difensore di fiducia dei G. in tutti i processi di mafia a loro carico.
Dal canto suo, il legale, in quello stesso periodo di tempo, si era prestato non solo a mantenere i necessari contatti con il P., ma anche a veicolare dal carcere gli ordini impartiti dai G. a vari destinatari, riguardanti la gestione del loro cospicuo patrimonio immobiliare e di alcune attività economiche, presuntivamente illecite.
Oltre all’anzidetta G. , anche lo zio Q. D. ed I. S., rappresentante di una ditta di caffè nell’interesse della cosca, entrambi in costante rapporto con l’avv. S., avevano gestito gli affari economici della famiglia G. .
Gli imputati erano così condannati alle pene seguenti: S. D. a sei anni di reclusione;
G. N. a cinque anni di reclusione;
Q. D., a cinque anni di reclusione;
I. S. a quattro anni e mesi quattro di reclusione;
C. C. a cinque anni e mesi otto di reclusione;
oltre alle pene accessorie applicate a tutti gli imputati ed alle conseguenziali statuizioni.
Pronunciando sul gravame proposto nell’interesse dei prevenuti, la Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma dell’impugnata pronuncia, applicava al C. la pena concordata dalle parti nella misura di anni quattro di reclusione e lire 40 milioni di multa; riqualificava il fatto ascritto agli altri imputati nei termini del concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso, ai sensi degli artt. 110, 416 bis, commi 1, 4 e 6 c.p. e riduceva la pena inflitta a G. N. ad anni quattro e mesi quattro di reclusione; a S. D. M. ad anni quattro e mesi otto di reclusione, a Q. D. ad anni quattro di reclusione e ad I. S. ad anni 3 e mesi otto di reclusione, oltre conseguenziali statuizioni.
Avverso l’anzidetta pronuncia, hanno proposto ricorso per cassazione C.C. ed i difensori degli altri imputati, per le ragioni indicate in parte motiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Motivi di economia espositiva consigliano di trattare, in primo luogo, il ricorso di C.C., che, come si é detto in narrativa, aveva patteggiato la pena in appello, a norma dell’art. 599, comma quarto c.p.p., previa rinuncia agli altri motivi di gravame.
Il primo motivo di ricorso deduce la violazione dell’art. 606, lett. b), sotto il profilo dell’inesatta qualificazione giuridica dei fatti attribuiti all’imputato, che avrebbero dovuto, piuttosto, essere sussunti sotto lo speciale paradigma previsto dal comma quinto dell’art. 73 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, cal. legge sugli stupefacenti. Si sostiene, in proposito, che le emergenze di causa, ed in particolare gli esiti delle disposte intercettazioni telefoniche, segnalavano una lieve entità dei fatti in contestazione, consistenti nella cessione, sovente a titolo gratuito, di modesti quantitativi di stupefacente al coimputato avv. S. D. M., per uso personale.
Connessa a tale ragione di censura é quella relativa al difetto motivazionale in proposito.
Il ricorso così come proposto é palesemente inammissibile. Ed invero, la dinamica del meccanismo procedurale attivato in favore del ricorrente, fondato sull’accordo negoziale in ordine all’entità della pena irrogata, comportava l’espressa rinuncia ai residui motivi di gravame, uno dei quali concerneva proprio la qualificazione giuridica del fatto in contestazione, sub specie della sua riconducibilità al paradigma del menzionato art. 73, comma quinto, della legge sugli stupefacenti. Di guisa che ogni contestazione al riguardo non é più proponibile in questa sede di legittimità.
Alla pronuncia di inammissibilità conseguono per legge le statuizioni espresse in dispositivo.
Degli altri ricorsi, é opportuno esaminare, innanzitutto, quella proposto nell’interesse dell’avv. S. D. M., posto che, in linea meramente astratta, taluni profili procedurali oggi riproposti, afferenti alla legittimità dell’attività captativa disposta nei suoi confronti, appaiono potenzialmente capaci di spiegare effetti favorevoli su altre posizioni, posto che gli addebiti mossi a carico dei coimputati, oggi ricorrenti, trovano almeno in parte la loro fonte accusatoria proprio nelle intercettazioni telefoniche ed ambientali che hanno riguardato il legale.
1. Orbene, il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 606, lett. b) ed e), con riferimento all’art. 103, comma quinto, e 271, comma primo, del codice di rito nonché all’art. 27 della Carta Costituzionale. Ripropone, in sostanza, l’eccezione di inutilizzabilità delle acquisizioni probatorie scaturenti dalle intercettazioni ambientali presso le case circondariali di Spoleto e di Tolezzo, ove i fratelli G. stavano scontando il regime detentivo loro imposto, nonché le intercettazioni telefoniche ed ambientali presso lo studio dello stesso professionista.
Il secondo motivo, che, per evidenti ragioni di connessione, può essere esaminato congiuntamente al primo, riguarda la violazione dello stesso art. 606 lett. b) c) ed e) del codice di rito, con riferimento agli artt. 267, comma primo, e 271, comma primo, ed all’art 15 Cost., sul riflesso che le intercettazioni anzidette avrebbero dovuto essere dichiarate inutilizzabili in quanto i relativi decreti non sarebbero stati adeguatamente e specificamente motivati.
La prima censura attiene al controverso tema dei limiti delle speciali garanzie di libertà del difensore dettate dall’art. 103 del codice di rito. In proposito, é appena il caso di menzionare la copiosa elaborazione giurisprudenziale, maturata all’indomani della nota pronuncia delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte (12.11.1993, n. 25, G., rv. 195627 e 195628) espressamente richiamata dall’impugnata pronuncia. In più occasioni, é stato, in effetti, affermato che le particolari disposizioni dell’art. 103 c.p.p. non si riferiscono soltanto allo specifico procedimento rispetto al quale é svolta l’attività di ricerca (intercettazione, perquisizione o sequestro), ma anche a procedimenti diversi. Ciò in quanto le speciali garanzie costituiscono riflesso dell’inviolabilità del diritto di difesa, come diritto fondamentale della persona, garantito dall’art. 24 della Costituzione.
Sennonché, la stessa pronuncia G. ha precisato che il divieto di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi rivesta la qualità di difensore e per il solo fatto di tale qualifica, ma soltanto le conversazioni che attengono alla funzione esercitata. In applicazione di tale principio, la Corte territoriale ha affermato che i limiti di utilizzabilità delle conversazioni captate non erano operanti nel caso di specie, posto che l’oggetto delle comunicazioni debordava dall’ambito di un’ordinaria attività difensiva. Replicano i difensori assumendo, anche in sede di odierna discussione orale, che la disposizione dell’art. 103 deve essere interpretata nel senso che introduce un divieto assoluto di conoscenza, prima ancora che di utilizzabilità, in quanto le conversazioni tra il difensore ed il suo cliente devono rimanere a monte inaccessibili ed inviolabili. Ed infatti, la verifica del rispetto dell’ambito difensivo non può che attenere ad un’indagine ex post, e dunque ad un’inammissibile presa di conoscenza postuma che, però, già nel momento stesso in cui viene in essere, integra, di per sé, inammissibile elusione del limite di legge.
In linea meramente astratta, l’eccezione difensiva sembrerebbe non priva di plausibilità, alla luce della formulazione letterale dell’art. 103, comma quinto, del codice di rito, laddove afferma che non é consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori (ndr.: e degli altri soggetti processuali indicati) né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite, in attuazione del principio costituzionale dell’inviolabilità della difesa, a mente dell’art. 24, comma secondo, della Costituzione.
Sennonché, come ogni diritto di rilevanza costituzionale anche il diritto alla segretezza delle conversazioni o comunicazioni del difensore va soggetto a limitazioni e, in particolare, a due ordini di limiti. Uno ad esso immanente, e cioè coessenziale alla sua stessa natura, in quanto la situazione giuridica protetta deve ricomprendere qualsiasi comunicazione che sia, però, effettivamente connessa all’attività di difensore e, dunque, inerente alla sfera istituzionale del relativo ufficio. L’uso del termine difensore (in luogo di quello generico: avvocato o legale) e l’inserimento sistematico della norma nel titolo settimo, del libro primo del codice, dedicato per l’appunto al difensore, é quanto mai significativo al riguardo. Ed é persino superfluo notare che non può dirsi, ontologicamente, defensionale l’attività volta non già alla tutela la più efficace possibile dell’assistito (sia egli responsabile o meno), bensì al fiancheggiamento, favoreggiamento, se non addirittura al concorso, con lui, in determinati reati, in piena condivisione delle sue logiche delinquenziali.
L’altro limite, stavolta “esterno”, attiene alla coesistenza e, quindi, all’esigenza di contemperamento con diritti od interessi di pari rilevanza costituzionale. E tale é incontrovertibilmente, anche se non esplicitamente enunciato, il superiore interesse al perseguimento ed alla repressione dei reati, specialmente di quelli, come la criminalità organizzata, potenzialmente capaci di porre in pericolo le fondamenta stesse dell’ordinamento democratico, e dunque dell’intero sistema di valori da cui traggono origine e ragion d’essere tutti i diritti costituzionalmente protetti, ivi compreso, appunto, quello della difesa.
Insomma, in nome sacralità della funzione difensiva e dell’impenetrabilità delle sue esplicazioni non é dato ipotizzare un’area di immunità assoluta, come se la mera attività legale potesse costituire sicuro usbergo rispetto ad ogni attenzione investigativa e fare del professionista un soggetto legibus solutus, al di fuori di ogni logica di democrazia, di civiltà giuridica e di uguaglianza tra i cittadini. La ratio della disposizione in questione non può, dunque, essere quella di dar luogo a privilegi di categoria, quanto, piuttosto, di esaltare l’importanza e l’inviolabilità della funzione difensiva, non come valore assoluto, ma in quanto sia effettivamente tale, e cioè intesa al perseguimento dei fini istituzionali che le sono propri e non già strumentalizzata per la commissione di reati.
In conclusione, allora, le speciali garanzie di libertà del difensore non possono valere ad inibire attività captative nei suoi confronti ove egli stesso sia indagato e, comunque, non possono sottrarre all’ascolto legittimo tale in quanto gli esiti relativi siano, poi, suscettivi di utilizzazione in processo, anche se quel connotato di legittimità sia riconoscibile solo a posteriori e non ex ante le conversazioni che non attengano alla funzione difensiva in quanto esse stesse interino fattispecie di reato.
D’altro canto, é argomento solo suggestivo, oltreché giuridicamente privo di sostegno, quello secondo cui il limite in questione riguarderebbe a monte il potere di disporre l’ascolto e non solo l’utilizzabilità dei relativi convenuti, posto che la verifica del rispetto di quello stesso limite sarebbe necessariamente postuma, nel senso che occorrerebbe prima ascoltare e poi verificare l’utilizzabilità processuale. Ed infatti, la norma del comma quinto dell’art. 103 deve essere letta congiuntamente a quella di cui al comma settimo, a tenore della quale le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni eseguiti in violazione delle disposizioni precedenti non possono essere utilizzate. Dunque, fermo restando il divieto tendenzialmente assoluto di intercettazione di comunicazioni del difensore, la valutazione di effettiva pertinenza delle intercettazioni, comunque effettuate, rispetto alla funzione difensiva costituisce un momento logicamente successivo. La fondatezza di siffatta conclusione é confermata dal richiamo all’art. 271 che, al comma terzo, impone la distruzione delle intercettazioni telefoniche illegittimamente acquisite e, quindi, anche di quelle estranee all’ambito propriamente difensivo.
D’altronde, non può certo sorprendere che, nell’attuale momento storico, nessun soggetto pubblico o privato e dunque neanche l’avvocato possa ritenersi sottratto all’ascolto del Grande Orecchio, reso possibile dal livello di esasperata tecnologia oggi raggiunto. Per fortuna, però, precise norme di garanzia, quali quelle contenute nel comma terzo, valgono ad impedire l’utilizzabilità a fini processuali di comunicazioni indebitamente captate, come quelle inerenti all’ufficio difensivo (ed anche indipendentemente dal conferimento di uno specifico e formale mandato: cfr. Cass. 17 aprile 2001, n. 8963, rv. 221900). Su questa linea interpretativa questa Corte si é già posta in precedenti occasioni, allorquando, ad esempio, ha ritenuto che l’ambito di protezione dell’ari 103 c.p.p. ha per oggetto le conversazioni o comunicazioni relative agli affari nei quali i legali esercitano la loro attività difensiva, e non si estende, quindi, a tutte le conversazioni che si effettuino nel domicilio del difensore indipendentemente dal loro nesso con la funzione esercitata né a quelle conversazioni che integrino esse stesse reato (cfr. Cass. sez. 6, 2 novembre 1998, n, 1472, rv. 213451: nel caso di specie, l’intercettazione era stata attivata nello studio di un professionista con riferimento a conversazioni, estranee all’esercizio della funzione difensiva, integranti il reato di favoreggiamento personale).
Nella fattispecie oggetto di giudizio, a parte le intercettazioni ambientali in case circondariali, si trattava di comunicazioni telefoniche nel corso delle quali l’avv. S., per conto dei G. , si industriava a tenere contatti tali da assicurare non solo la gestione e la redditività del cospicuo patrimonio della cosca, ma addirittura di far sì che l’attività illecita del sodalizio continuasse a mantenere e ad alimentare quel patrimonio, facendosi, all’uopo, latore di messaggi criptati provenienti dalle carceri.
Ma a tutto concedere, ed anche a ritenere per mera ipotesi che l’attività captativa compiuta nei confronti del legale fosse davvero affetta da illegittimità, nessun giovamento potrebbe giammai ricevere la sua posizione sostanziale, posto che l’impianto accusatorio, valorizzato dai giudici di merito, si reggerebbe, in ogni caso aliunde, fondandosi su significativi e pertinenti acquisizioni probatorie, quale, in primo luogo, l’acquisizione degli appunti sequestrati presso l’abitazione dello stesso professionista, nei quali venivano diligentemente annotate le conversazioni intrattenute nelle carceri con i suoi assistiti e memorizzate, in codice, le direttive ricevute. Giustamente, é stato poi ritenuto che la valenza accusatoria di quelle annotazioni restava esaltata dal linguaggio codificato in cui erano redatte che, in uno alla accertata capacità dell’imputato di decodificarne il testo, per portarlo a conoscenza dei destinatari, conclamava l’assunto conclusivo che lo stesso Salvo avesse fatto da trait d’union tra i G. ed il mondo esterno. Ed il collegamento non era unidirezionale, e cioè volto solo all’esterno, per la gestione di attività economiche o addirittura per rivolgere messaggi a chi doveva mettere a posto operatori economici che, evidentemente, erano riottosi alle imposizioni mafiose e dovevano, quindi, essere rabboniti e piegati a quelle determinazioni (cfr. sentenza impugnata, pag. 11). Ma si muoveva anche in direzione opposta, e cioè come tramite attraverso il quale alcuni operatori economici facevano pervenire ai fratelli G. richieste di protezione.
Per quanto riguarda, inoltre, la seconda censura riguardante la pretesa illegittimità dei decreti di autorizzazione delle intercettazioni perché privi di motivazione, é sufficiente prendere atto che, con idonea motivazione, la Corte territoriale ha dato ragione della ritenuta infondatezza della relativa censura, reputando, tra l’altro, sufficiente il mero riferimento, racchiuso nella parte motiva dei provvedimenti autorizzatori, alla richiesta del P.M. che, a sua volta, aveva fatto riferimento ad una nota della D.I.A. che, in relazione ad un’indagine di mafia in corso, aveva acquisito elementi tali da far ritenere che le mogli dei germani G. si fossero sostituite ai mariti nella gestione dei traffici illeciti, donde la necessità che si procedesse all’ascolto delle utenze telefoniche indicate alfine di raccogliere elementi probatori non altrimenti acquisibili.
Pacifico orientamento di questa Corte regolatrice riconosce, ormai, da tempo la validità della motivazione per relationem anche per i decreti di intercettazione, reputando sufficiente oltre all’ordinario presupposto di validità di tale motivazione, ossia la conoscenza o conoscibilità dell’atto richiamato che dal contesto del decreto risulti che il giudice abbia compiuto una valutazione critica degli elementi investigativi disponibili e delle richieste del P.M. (cfr., tra le tante, Cass. sez. 5, 14.5.2002, n. 646, Rugeri ed altri). E, nel caso di specie, risulta che una tale valutazione sia stata fatta, in rapporto a precise risultanze investigative motivatamente ritenute integranti validi indizi a sostegno dell’ipotesi che fosse in atto una precisa strategia intesa all’allocazione all’estero di ingenti disponibilità patrimoniali e finanziarie della cosca G. e, dunque, un’attività manifestamente funzionale agli interessi dello stesso sodalizio.
Ineccepibile, poi, é la qualificazione giuridica formulata dalla Corte di merito nei termini del concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso. Con il che, si segnala subito la manifesta infondatezza della terza doglianza, che sostiene la violazione degli artt. 110 e 416 bis c.p., dubitando della sussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi della ritenuta ipotesi delittuosa.
In proposito, giova certamente premettere che, come emerge dalle relative informazioni provvisorie (nn. 28 29 e 30), le Sezioni Unite di questa Suprema Corte, chiamate a dirimere il contrasto interpretativo in ordine alla configurabilità del concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso, hanno risolto positivamente il contrasto, con sentenza del 30 ottobre 2002, non ancora depositata. In proposito, é stato, tra l’altro, ritenuto che la particolare fattispecie ricorre nelle ipotesi in cui taluno, pur privo di affectio societatis e non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione, fornisca un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, purché questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima.
L’ufficialità di quelle informazioni ed il perspicuo carattere dei principi in esse massimati consentono di disattendere la richiesta dei difensori del Salvo, formulata preliminarmente all’odierna udienza, perché il procedimento fosse rinviato in attesa del deposito delle motivazioni della menzionata pronuncia delle Sezioni Unite.
Dunque, con tale deliberazione, é stato positivamente risolto il quesito della configurabilità della speciale ipotesi delittuosa in questione ed é stato, altresì, affermato che il suo ambito di esplicazione non é circoscritto ai casi di apporto esterno inteso al mantenimento del sodalizio, sì da consentire il superamento di momentanee difficoltà (o stati di fibrillazione, secondo la singolare terminologia usata nella nota sentenza delle Sezioni Unite n. 16 del 5.10.1994, Demitry), ma ricomprende anche le ipotesi di contributo volto al rafforzamento della stessa consorteria.
E tali conclusioni appaiono del tutto condivisibili e devono, senz’altro, essere confermate.
Peraltro, già sul piano della pura logica di diritto non poche perplessità inducevano, in passato, a dubitare della correttezza di una ricostruzione teorica dell’istituto che lasciasse fuori dell’area di applicabilità l’ipotesi dell’apporto esterno inteso al potenziamento della consorteria e non soltanto al superamento di contingenti difficoltà, tanto più a fronte di sicuri dati di conoscenza, che assurti a consistenza di massime di esperienza, alla stregua di univoche acquisizioni di tipo sociologico e giudiziario segnalavano da tempo che proprio quel genere di contributo costituiva una realtà largamente diffusa in determinati contesti sociali, tradizionalmente permeabili al condizionamento mafioso. Non solo, ma un ulteriore dato di conoscenza rendeva avvertiti che proprio la disponibilità di contributi esterni, che costituisce l’essenza precipua della fattispecie in questione, ha rappresentato la via attraverso la quale Cosa Nostra é giunta ad infiltrarsi in ambiti istituzionali, riuscendo così a contaminare anche settori importanti dell’ordinamento, sino a condizionarne le modalità di espressione (cfr. Cass. Sez. 5, 13.11.2002, n. 1244, dep. n. 4293/2003).
Applicando tali principi al caso di specie, non v’é dubbio che, in concreto, ricorrano tutti i presupposti della ritenuta contestazione.
E’ pacifico, infatti, che l’apporto offerto dal legale assumeva particolare rilevanza causale nell’economia dell’associazione per delinquere in questione, già solo nella prospettiva del superamento di contingenti difficoltà del sodalizio mafioso, conseguenti alla restrizione dei capi, se non addirittura al suo consolidamento. Basti considerare, che i germani G. , indiscussi leaders del sodalizio, nonostante fossero ristretti in carcere, continuavano ad impartire ordini all’esterno attraverso la compiacente disponibilità del legale che si faceva portatore di messaggi in codice. Non solo, ma che il contributo dell’avv. Salvo fosse tutt’altro che marginale lo dimostra la circostanza che i G. erano soggetti al rigoroso regime dell’art. 41 bis, caratterizzato, come è noto, da particolari restrizioni, con evidenti difficoltà di comunicare con l’esterno in altro modo che non fosse il veicolo di trasmissione offerto dal legale, in occasione dei periodici colloqui in carcere (e ritenuto, ovviamente, più affidabile e sicuro di quanto non potesse essere il colloquio personale mensile con i familiari).
Parimenti ineccepibile é la considerazione della componente soggettiva, fondatamente desunta dalla stessa peculiarità della condotta posta in essere dall’imputato, il quale, proprio per le sue competenze professionali e le sue conoscenze dirette, occasionate da pregresso espletamento di mandato difensivo, ben sapeva quale fosse la caratura delinquenziale dei G. e quale peso specifico gli stessi continuassero ad avere in seno al sistema delinquenziale inteso Cosa Nostra. Non solo, ma l’esperienza e la capacità professionale non potevano certamente renderlo ignaro della valenza dell’attività di intermediazione prestata e del contributo che essa arrecava alle strategie di mantenimento e di consolidamento del sodalizio delinquenziale, sicuramente alla ricerca di nuovi equilibri dopo la restrizione dei suoi vertici, che, a loro volta, avevano assoluta necessità di continuare a manifestare all’esterno il loro immutato carisma mafioso, attraverso segnali chiari e forti della loro persistente influenza.
Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione dell’ art. 606, lett. b), c) ed e) con riferimento all’art. 192, comma, e 416 bis, sul rilievo che non vi sarebbe prova in atti che l’associazione abbia ricevuto un concreto vantaggio dall’attività di tramite svolta dal legale o che il contributo del S. fosse realmente inteso in favore della consorteria, o che i messaggi attenessero alla vita criminale dello stesso sodalizio o che i destinatari fossero degli affiliati e, in una parola, che l’attività fosse illecita.
La censura é inammissibile in quanto afferisce a valutazioni di merito. Emerge già dalle superiori considerazioni che le qualità professionali dell’imputato costituivano il sintomo più affidabile di consapevolezza, mentre i risultati investigativi, in uno alle dichiarazioni del collaboratore P. (il commercialista con il quale era in stretto contatto), integravano una base probatoria di sicuro affidamento in tutte le prospettive di doglianza (peraltro, di fatto) in direzione delle quali si muove la censura di parte. Nessun argomento difensivo, espresso nei motivi di gravame, era, peraltro, idoneo a vincere la plausibilità e la coerenza logica del sistema argomentativo ritenuto dalla Corte territoriale, di guisa che ogni contrario rilievo é stato giustamente (ed implicitamente) disatteso dai giudici di merito.
Il quinto motivo denuncia la violazione dell’art. 606 lett. b) del codice di rito in relazione agli artt. 416 bis , commi quarto e sesto, 50 comma secondo, 62 bis e 133 c.p.. La censura, come é fatto palese dai riferimenti normativi, investe la parte della sentenza che ha ritenuto sussistenti le aggravanti contestate, nonostante l’asserito difetto di elementi di imputazione soggettiva in ordine alle stesse circostanze, e segnatamente a quelle concernenti il reimpiego di capitali illeciti.
Orbene, la doglianza, considerata nella sua globalità, é inammissibile in quanto relativa all’esercizio del potere discrezionale di quantificazione della pena, di cui il giudice di merito ha reso esauriente e corretta motivazione. In particolare, appare ineccepibile la conferma delle riconosciute aggravanti alla stregua di plausibile e pertinente argomentazione, relativa al riscontro positivo della piena consapevolezza del S. in ordine al rilievo della sua attività di intermediazione per l’acquisto dell’ufficio di cambio nizzardo e per l’acquisto di prodotti finanziari lussemburghesi per conto dei G.. Del pari inoppugnabile risulta il diniego delle attenuanti generiche, adeguatamente motivato con riferimento alla peculiarità del fatto in esame, che registrava l’abuso della professione forense in favore degli interessi di Cosa Nostra, anche al fine di consentire l’elusione delle indagini patrimoniali da parte dell’Autorità.
Da ultimo, va disatteso il motivo di ricorso aggiunto, con il quale il difensore ricorrente ha lamentato la mancata qualificazione della fattispecie in esame in termini di favoreggiamento personale. Ed invero, le modalità dei fatti, che consistevano nel consapevole ed efficace apporto del legale nella gestione delle attività economiche occulte del gruppo, tanto più in una situazione di persistente difficoltà del sodalizio, per via della restrizione dei suoi capi, inducevano, in effetti, a sussumere il fatto nello schema concettuale del concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso, piuttosto che nel meno grave paradigma normativo del favoreggiamento.
Il ricorso proposto in favore di G. N. si articola su quattro motivi. Il primo denuncia la violazione dell’art. 8 in relazione all’art. 416 bis, c.p., ai sensi dell’art. 606 lett. b). Ripropone, in sostanza, l’eccezione di incompetenza territoriale, sul rilievo che competente a provvedere sarebbe stato il tribunale di Spoleto, evidentemente sede della casa circondariale presso la quale é avvenuta la prima intercettazione ambientale. Si ritiene, in proposito, contraddittorio considerare radicata la competenza per territorio, ai sensi dell’art. 8 comma terzo, nel luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, stante la permanenza del reato, in relazione all’art. 416 bis, e ritenere, poi, l’imputata responsabile della diversa ipotesi delittuosa del concorso esterno.
La censura é destituita di fondamento, posto che la motivazione addotta, in proposito, dalla Corte di merito, sia pure con specifico riguardo alla posizione del S., é ineccepibile nel suo riferimento alla sede in cui territorialmente operava la cosca mafiosa facente capo ai G. e venivano, altresì, gestite le attività patrimoniali. Se così é, non si vede come possa contestarsi che la peculiare tipologia del concorso esterno in una determinata associazione mafiosa che abbia la sua sede naturale in un determinato ambito territoriale, non partecipi ai fini della determinazione della competenza territoriale dell’autorità giudiziaria procedente della stessa natura della fenomenologia delinquenziale favorita, radicandosi così nella stesse sede geografica. Non solo, ma anche se l’input dell’interessamento della G. avesse, per mera ipotesi, avuto luogo in sede diversa da Palermo, era proprio nella città palermitana che avrebbe dovuto, poi, dispiegarsi il concreto contributo dell’attività gestionale svolta dall’imputata, di guisa che anche sotto tale particolare riflesso l’eccezione sarebbe destituita di fondamento.
Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 103, commi quarto e quinto, in riferimento all’art. 606 lett. b) e 24 Cost. Lamenta, al riguardo, la mancanza di motivazione sulla reclamata violazione dei diritti di difesa, nonché la mancanza di motivazione sulla nullità di un decreto di perquisizione del 20.7.1999.
La censura é, nel suo complesso, priva di fondamento, a parte gli specifici profili di inammissibilità che pure la caratterizzano. Sotto quest’ultimo riflesso é evidente la genericità del rilievo riguardante la pretesa violazione di diritti di difesa ovvero l’asserita irregolarità delle intercettazioni telefoniche o della perquisizione in casa dell’avv. S. (per l’appunto quella datata 20 luglio 1999), che avrebbe costituito la fonte esclusiva degli elementi probatori a carico dell’imputata. Ad ogni buon conto, la Corte di merito, nella parte relativa alla posizione del S., non ha mancato di dar conto delle eccezioni di parte, argomentandone, fondatamente, l’inconferenza. Del resto, le considerazioni che precedono dimostrano come le intercettazioni telefoniche ed ambientali nei confronti del legale esulassero dalla sfera delle guarentigie predisposte dall’art. 103, mentre, per quanto concerne la perquisizione domiciliare, la Corte di merito ha esattamente motivato sul rilievo che, trattandosi di perquisizione avvenuta presso la casa di abitazione del legale, e non già presso il suo studio, non erano applicabili le regole di garanzia dettate dalla richiamata norma processuale, peraltro puntualmente osservate, invece, in occasione della perquisizione eseguita presso lo studio Salvo.
Il terzo motivo denuncia la manifesta illogicità e la contraddittorietà della motivazione in punto di responsabilità e qualificazione giuridica del fatto, ai sensi dell’art. 606 lett. e) c.p.p., nonché la violazione degli artt. 110 e 416 bis c.p., in riferimento all’art. 606 lett. b), sul rilievo della mancanza di prova dell’ipotesi delittuosa ritenuta in sentenza.
La censura é manifestamente infondata, in quanto la Corte territoriale ha adeguatamente, e correttamente, motivato sulle ragioni per le quali, focalizzata l’attività spiegata dalla G. in favore degli interessi mafiosi, attraverso l’attività gestionale nell’interesse della cosca anche al fine di sottrarre le relative disponibilità patrimoniali ad eventuali attenzioni della pubblica autorità, la stessa fosse pienamente e giustificatamente riconducibile all’ipotesi del concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso. D’altro canto, il compendio probatorio in atti, costituito anche dalle convergenti dichiarazioni di imputati di reato connesso, doverosamente vagliate nella loro attendibilità, é stato giustamente ritenuto idoneo e sufficiente a sorreggere l’impianto accusatorio.
Il quarto motivo, deduce la violazione dell’art. 62 bis e 416 bis, commi quarto e sesto, nonché dell’art. 133 c.p., in riferimento all’art. 606 lett. b) c.p.p., con riguardo al regime sanzionatorio.
La censura é inammissibile, posto che il giudice di merito, nel riqualificare il fatto ascritto alla G. , ha dato ampio ed esaustivo conto delle ragioni del trattamento sanzionatorio, conseguente al motivato diniego delle generiche ed al comprovato riconoscimento delle contestate aggravanti.
Venendo, ora, al ricorso proposto dall’avv. F. I., si osserva che il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 267 e 271 con riferimento all’art. 606, comma primo, lett. c) ed e) con riferimento alla pretesa mancanza di motivazione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni, non ritenendo sufficiente ad integrare valida motivazione il mero riferimento alle note della D.I.A.
Sul punto, é sufficiente il rinvio alle considerazioni che precedono in ordine ad identica censura proposta in favore dell’avv. S.. Quanto alla G. , v’é solo da aggiungere che le risultanze investigative, espressamente richiamate, segnalavano che la donna effettuava ripetuti viaggia Nizza, in contatto con un personaggio sospetto come il commercialista Puma (che avrebbe poi collaborato alle indagini), nel quadro di non infondati indizi di un’attività, quanto meno configurabile come riciclaggio, al servizio della cosca, nel quadro di un’indagine di mafia.
Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 416 bis, dell’ari 378 e dell’art. 12 quinquies della 1. n. 356/1992, in relazione all’art. 606 lett. b) ed e), sul riflesso dell’erronea qualificazione dei fatti in contestazione e, esattamente, della negata configurazione di ipotesi di reato (quelle espressamente richiamate) che meglio ‘si sarebbero attagliate alla fattispecie in contestazione.
Il rilievo é destituito di fondamento posto che la Corte di merito ha reso motivazione immune da vizi od incongruenze di sorta in ordine alla ritenuta qualificazione giuridica sulla base dell’accertata condotta dell’imputata, sicuramente tale da essere ascritta all’ipotesi di reato in questione.
Attiene a profilo di merito anche la censura riguardante la ritenuta liceità del patrimonio G. , in quanto, al riguardo, nei termini di un insindacabile apprezzamento di merito, ha reso idonea motivazione, reputando che fosse ragionevole supporre che si trattasse di capitali comunque illeciti, alla stregua del complesso e simulatorio sistema di copertura all’uopo predisposto, che si avvaleva anche dell’intermediazione di prestanomi e del costante impiego, nelle intercorrenti conversazioni, di espressioni criptiche per la relativa individuazione.
Parimenti infondato é il terzo motivo riguardante il riproposto profilo della ritenuta insussistenza del reato di cui all’art. 12 quinquies della 1. n. 356/1992, in quanto l’accertata condotta posta in essere dalla G. é stata ritenuta con argomentato apprezzamento di merito esorbitante dai limiti di mera (ed episodica) attività di trasferimento fraudolento di valori, configurandosi, invece, come attività funzionale agli interessi del sodalizio mafioso, sostanziandosi nella gestione di capitali illeciti ad esso riconducibili.
Va da ultimo disattesa l’ultima censura, afferente al regime sanzionatorio, coincidente con il già esaminato quarto motivo del ricorso proposto dall’avv. P..
Valutati nel loro complesso, nella globale economia e nella logica complessiva delle censure addotte, entrambi i ricorsi possono essere rigettati.
Il ricorso proposto nell’interesse di Q. D. si articola in due motivi.
Il primo denuncia la violazione degli artt. 110 e 416 bis c.p., in relazione all’art. 606, lett. b) ed e) del codice di rito, sotto il profilo della ritenuta insussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi necessari per l’integrazione del reato di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso.
In proposito, si osserva che la censura é inammissibile nella parte in cui appare volta a sollecitare una rilettura delle risultanze di causa, alle quali la Corte di merito, nell’esercizio di incensurabile valutazione di merito, ha assegnato un significativo rilievo indiziario in direzione del contesto di fatto ritenuto pacifico in processo. E cioè che il Q., anziano zio dei G. , svolgesse, se non il ruolo di prestanome, quello di esattore e cassiere di attività economiche occulte dei fratelli G. , curando, sotto tale veste, la gestione di attività, evidentemente, alimentate con il flusso di capitali illeciti, la cura delle quali presupponeva il contributo di un soggetto che, quantunque estraneo all’organizzazione, ne condividesse logiche e finalità di azione. Ora, che la valenza indiziaria degli elementi raccolti intercettazioni telefoniche, riscossioni di danaro dall’avv. S., costanti rapporti con quest’ultimo per ragioni nient’affatto afferenti ad espletamento di incarichi difensivi, presenza alle periodiche rendicontazioni fatte dal coimputato I. ritenuto prestanome dei G. , valutati alla luce anche delle propalazioni accusatorie di Puma Giorgio fosse idonea a sostenere la conclusiva valutazione dei giudici di merito, in ordine al tipo di contributo offerto dal Q., é momento di valutazione sottratto al sindacato di legittimità, in quanto esaustivamente e correttamente motivato. Che l’attività così delineata sia riconducibile alla tipologia concettuale del concorso esterno é, invece, affermazione verificabile, posto che attiene alla qualificazione giuridica del fatto in contestazione. L’operazione ermeneutica della Corte territoriale, che sta alla base di siffatta qualificazione, é ineccepibile, sicché la complessiva doglianza risulta priva di fondamento.
Per quanto riguarda le osservazioni di parte in ordine alla configurabilità del concorso esterno, é sufficiente il rinvio alle superiori considerazioni in ordine alla recente pronuncia delle Sezioni Unite, che hanno risolto positivamente il quesito anche nell’ulteriore implicazione dell’ambito di estensione della fattispecie delittuosa in direzione del potenziamento della cosca. Ma anche se così non fosse stato, il contributo ascritto al Q. sarebbe, comunque, temporalmente collocabile in un momento storico di sicura difficoltà del gruppo, connessa allo stato di detenzione dei suoi capi. Per sopperire a tale difficoltà si adoperava appunto il Q., assicurando così la continuità di gestione delle attività economiche che, verosimilmente alimentate con proventi delittuosi, costituivano attività correlate e parallele all’impresa delinquenziale, costituendo rilevante fonte di sostentamento del sodalizio. Dunque, il contributo offerto nella gestione di quelle attività era fondamentale ed indispensabile nell’economia complessiva dell’organizzazione, di talché la sua qualificazione nei termini giuridici ritenuti in sentenza appare assolutamente ineccepibile.
All’apporto fondamentale, dotato per le dette ragioni di incisiva rilevanza causale ai fini del mantenimento del sodalizio, si accompagnava poi la piena consapevolezza del significato di quel contributo, in assoluta sintonia con le modalità strategiche e con le finalità del gruppo mafioso. E, per i giudici di merito, é stato assai facile affermare siffatta consapevolezza in ragione dei rapporti di affinità (si trattava dello zio materno) con i G. che facevano l’imputato certamente avvertito della caratura criminale dei congiunti e del significato complessivo del sistema organizzativo di cui essi erano parte integrante.
Il secondo motivo deduce la violazione dell’art. 606 lett. b) c) ed e) e degli artt. 133 e 62 bis c.p. La censura é inammissibile in quanto attiene al processo di determinazione della pena, peculiare espressione di discrezionalità del giudice, che, nel caso di specie, non ha certamente mancato di dar conto del modo come ha esercitato quel suo potere. Adeguatamente motivato é anche il presupposto di tale discrezionalità, ossia il diniego delle attenuanti generiche, che il giudice di merito, nonostante l’incensuratezza dell’imputato, ha congruamente motivato in rapporto alla particolarità e gravità del fatto in contestazione. La pertinenza di entrambi i criteri utilizzati risulta di immediata evidenza, non appena si abbia riguardo al significato ed al ruolo decisivo, per il proficuo mantenimento dell’organizzazione delinquenziale, che rivestono determinati apporti esterni, e cioè i contributi di chi, pur non essendo intraneo al sodalizio, ne condivide finalità e ragion d’essere.
Per quanto concerne, ora, la posizione di I. Salvatore, il primo motivo di ricorso proposto in suo favore eccepisce l’illegittimità delle disposte intercettazioni telefoniche ed ambientali, per violazione degli artt. 267, 268, 270 e 271 del codice di rito, con riferimento all’art. 606 lett. c) ed e) c.p.p. Vengono, in definitiva, così ribadite le eccezioni riguardanti, specialmente, il difetto motivazionale dei decreti autorizzativi, anche in relazione all’uso di apparecchiature diverse da quelle installate presso gli uffici di Procura.
Orbene, a confutazione dei rilievi difensivi é certamente sufficiente il richiamo alle considerazioni che precedono, nella parte in cui hanno riconosciuto la correttezza degli argomenti addotti in proposito dalla Corte territoriale anche con riferimento alla sufficienza delle motivazione degli anzidetti decreti.
Il secondo, terzo e quarto motivo d’impugnazione, riguardanti rispettivamente il preteso difetto motivazionale in ordine al ritenuto concorso esterno, al relativo elemento soggettivo ed al mancato riconoscimento di ipotesi di reato alternative, quali quelle previste dagli artt. 379, 648 bis e 12 quinquies della 1. 7.8.1992, n. 356, possono essere valutati congiuntamente, attenendo al profilo della qualificazione giuridica dei fatti oggetto di giudizio e della sussistenza dei relativi presupposti.
A1 riguardo, può ancora una volta farsi riferimento, per la parte teorico generale, alle superiori considerazioni in ordine alla configurabilità del reato di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso. Quanto poi alla correttezza dell’inquadramento in siffatta categoria concettuale della specifica fattispecie ascritta all’I., la spiegazione resa dalla Corte territoriale risulta ineccepibile e può, pertanto, pienamente condividersi. Giova ricordare in proposito che il ruolo addebitato all’I. era quello di prestanome dei G. , in relazione all’importante gestione di un settore commerciale di particolare rilevanza per la sopravvivenza dell’omonima cosca mafiosa, e cioè la commercializzazione del caffè ITI. La sufficienza e pertinenza dei dati indiziari in virtù dei quali i giudici di merito, con concordi conclusioni in punto di fatto, nelle sentenze di primo e secondo grado, hanno ritenuto che tale attività fosse direttamente riferibile ai G. , dei quali 1’I. era solo un fiduciario ed ai quali rendeva il conto periodico della sua gestione, costituiscono oggetto di apprezzamento di merito, del quale é stata resa ampia ed esaustiva spiegazione e che, proprio per questo, non può più essere messa in discussione in questa sede di legittimità. Come si é detto per il Q., in siffatto contesto può solo collaudarsi la correttezza dell’inquadramento giuridico della fattispecie ed il relativo giudizio, ancora una volta, ha esito ampiamente positivo perché, come si é detto, la conduzione in proprio nome, ma per conto di pericolosi esponenti mafiosi, di attività economiche di fondamentale rilievo per gli interessi del sodalizio, non soltanto in chiave di mantenimento, ma anche di consolidamento del proprio prestigio in zona, cui era indispensabile la manifestazione di potere economico, costituisce espressione di concorso esterno nell’accezione precipua della tipologia di reato oramai consacrata dall’autorevole interpretazione delle Sezioni Unite. Si tratta, invero, di apporto consapevole e fondamentale, di ragguardevole rilievo causale ai fini del mantenimento e del rafforzamento del vincolo associativo, e dunque tale da integrare gli estremi della ritenuta fattispecie delinquenziale. Va da sé, poi, che la positiva delibazione dei presupposti soggettivi ed oggettivi di tale ipotesi di reato comportava l’esclusione di altre potenziali configurazioni delinquenziali, in particolare, in ragione delle peculiarità e della continuità o stabilità dell’apporto, delle soluzioni del favoreggiamento personale, del riciclaggio o del trasferimento fraudolento di valori.
Per quanto riguarda, infine, i restanti motivi di ricorso, si osserva che il quinto, sesto e settimo motivo, riguardanti, nella loro globalità, il trattamento sanzionatorio ed i suoi presupposti operativi, connessi al riconoscimento delle contestate aggravanti, al calcolo degli aumenti ed al diniego delle attenuanti generiche, possono essere contestualmente esaminati.
Anche per tale tipo di censure non v’é che da ribadire quanto in precedenza osservato in ordine alla loro improponibilità in questa sede, nella parte in cui involgono la determinazione dell’entità della pena irrogata. Quanto invece al corretto svolgimento della metodologia di calcolo ed alla ritenuta esistenza dei presupposti (riconoscimento di circostanze aggravanti, diniego di generiche e conseguente dinamica di calcolo), si osserva che i rilievi difensivi sono destituiti di fondamento. Ineccepibile risulta, infatti, il riconoscimento delle circostanze di cui ai commi quattro e sesto dell’art. 416 bis, della cui conferma, in sede di gravame, la Corte territoriale ha reso ampia e pertinente motivazione, anche con riferimento al notorio delle particolarità del modo di essere di Cosa Nostra ed al reimpiego di capitali illeciti, dato quest’ultimo conclamato in questo stesso processo.
Non sussiste, poi, la denunciata violazione dell’art. 64, comma quarto, in quanto la procedura di calcolo seguita dai giudici di merito si basa su una corretta applicazione del meccanismo operativo dettato dall’art. 416 bis che, in quanto normativa speciale, prevale ovviamente sui criteri di carattere generale. Orbene, la disposizione di cui al comma sesto dispone, come é noto, che, nel caso ricorra la speciale aggravante in essa prevista, le pene stabilite nei commi recedenti sono aumentate da un terzo alla metà; dunque, l’aumento va determinato sulla pena autonomamente prevista dalla fattispecie aggravata di cui al comma quarto, restando così esclusa la disposizione di cui all’art. 64, quarto comma, secondo cui se concorrono più circostanze aggravanti tra quelle indicate nel secondo capoverso di questo articolo, si applica soltanto la pena stabilita per la circostanza più grave; ma il giudice può aumentarla. Per l’associazione mafiosa vige, invece, il più severo principio secondo il quale, in costanza di più circostanze ad effetto speciale (quali, indubbiamente, sono quelle di cui ai commi quarto e sesto; comportando un aumento di pena superiore ad un terzo, ai sensi dell’art. 64, comma terzo, c.p.), l’aumento deve essere computato sulla pena già aumentata per effetto dell’altra aggravante. Ad ogni modo, é agevole considerare che la particolarità e gravità del fenomeno associativo giustifica, certamente, un trattamento speciale anche sul piano sanzionatorio e che, ad ogni buon conto, una siffatta particolarità non si pone in grande dissonanza rispetto all’ordinaria procedura di determinazione, ove si consideri che la norma generale di cui al comma quarto prevede che, comunque, il giudice possa aumentare la pena, che sarebbe astrattamente irrogabile per effetto della circostanza più grave.
Per quanto concerne, infine, il diniego delle attenuanti generiche, la valutazione negativa risulta ampiamente motivata, in linea con il convergente apprezzamento del primo giudice, in ragione dell’entità del contributo offerto dall’imputato e dall’impossibilità di cogliere nella sua condotta qualsivoglia profilo di benevolo apprezzamento.
L’ottavo motivo di ricorso denuncia, infine, la violazione dell’art. 606, lett. b) ed e) c.p.p., in relazione agli artt. 125, comma terzo dello stesso codice di rito, agli artt. 133, 203, 228 e 417 c.p. ed all’art. 31, comma secondo, della 1. 10 ottobre 1986, n. 663.
Il ricorrente si duole, in particolare, del fatto che sia stata, immotivatamente, ritenuta la pericolosità sociale dell’imputato, nonostante peraltro la riqualificazione del fatto a lui ascritto non più in termini di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso, bensì della meno grave fattispecie del concorso esterno.
Il rilievo é infondato in quanto, ancorché con formulazione sintetica, il giudice di merito ha ancorato l’applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata al positivo riscontro della pericolosità sociale dell’imputato, desunta dall’entità dei fatti accertati a suo carico e rimasta impregiudicata, nonostante la diversa qualificazione ritenuta nella sentenza impugnata. Non é fondatamente contestabile, invero, che la tipologia del concorso esterno non resti coinvolta dal generale giudizio di pericolosità del fenomeno associativo cui contribuisce, offrendo anzi un apporto talora decisivo ai fini della relativa sopravvivenza.
Anche il ricorso dell’I., valutato nel suo insieme, deve essere rigettato.
Per tutto quanto precede, deve essere dichiarato inammissibile il ricorso del C. con le conseguenze di legge indicate in dispositivo. Tutti gli altri ricorsi devono essere, invece, rigettati, con le conseguenti statuizioni pure espresse in dispositivo.
PER QUESTI MOTIVI
Dichiara inammissibile il ricorso del C. e lo condanna a versare euro mille alla Cassa delle ammende. Rigetta i ricorsi degli altri imputati. Condanna tutti i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.
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