di Andrea Monti – PC Professionale n. 123
A colloquio con il co-fondatore dell’Open Source Initiative che promuove l’impiego del software libero all’interno delle aziende. Quando una licenza d’uso è “open source”.
La sezione milanese dell’Associazione Italiana per il Calcolo Automatico (www.aicanet.it) – in collaborazione con ALCEI (www.alcei.it) – ha organizzato tre incontri – uno dei quali svoltosi all’Università statale di Milano lo scorso 3 aprile – con un ospite di eccezione: Bruce Perens, Senior strategist per Linux e Open Source in Hewlett Packard. Bruce Perens non è soltanto un manager di altissimo livello, ma è noto nel mondo del free software come uno dei più eminenti sviluppatori (è stato leader del progetto debian http://www.debian.org) e co-fondatore della Open Source Initiative (http://www.opensource.org). Cioè un progetto il cui scopo è di promuovere – anche e soprattutto all’interno delle aziende – la diffusione e l’impiego del software libero.
Nell’ambito di questa attività Perens ha fornito un decisivo contributo alla creazione delle linee guida che consentono di qualificare una licenza d’uso o di distribuzione come “open source”. Questo si è reso necessario perché nel mondo IT c’è un uso abbastanza diversificato delle parole. E molti qualificano i propri prodotti come “open” anche se in realtà non si stanno riferendo al modello dei codici aperti. Le giornate milanesi sono state l’occasione per parlare nello specifico di licenze, freeware e modelli di business legati a un diverso modo di intendere la proprietà intellettuale.
In primo luogo, è necessario definire i rapporti fra open source e free software. Si tratta di una relazione di genere a specie. Nel senso che la licenza GPL (General Public Licence), quella che regola l’uso del free software, rientra nella categoria open source, mentre non è vero il contrario. Esistono cioè delle licenze qualificabili come open source che sono diverse dalla GPL. Questo è un concetto molto importante da capire, perché molti sono convinti che la GPL e la LGPL (Lesser GPL) siano le uniche licenze d’uso esistenti sul mercato. Il che tiene lontane molte aziende da questo ambiente, convinte come sono che questo modello di licensing sia troppo penalizzante per le loro attività. In effetti, le licenze GPL – peraltro molto ben fatte – sono veramente “blindate”. Nel senso che non consentono a chi sviluppa software di modificare i criteri di copia e distribuzione. Così, chi usa un prodotto regolato dalla GPL può ridistribuirlo ma non può, per esem pio, evitare di ridistribuire anche i sorgenti (il che non è affatto male).
Nello stesso tempo, però, uno sviluppatore che decida di incorporare componenti o librerie GPL in un’applicazione autosviluppata è obbligato a rilasciare il software – a pena di violazione anche penale della legge sul diritto d’autore – con lo stesso modello di licenza. Questa capacità “virale” della GPL è uno dei motivi che tiene lontani molti soggetti, interessati alle potenzialità tecniche e commerciali del software libero ma non disposti a “pagare il prezzo” della libera duplicabilità e modificabilità dei sorgenti. In termini estremamente pragmatici, quindi, Perens e i fondatori della Open Source Initiative si sono sforzati di creare un modello di licensing che fosse “accettabile” anche da chi non condivideva i presupposti ideologici sui quali si basano GPL e free software.
Ho parlato di “modello di licensing” e non di “licenza” tout court perché l’obiettivo non è fornire un “testo di condizioni generali” valide per tutto il mondo. Ma quello di individuare una serie di criteri per capire se una licenza possa o meno rientrare nella categoria “open source”. Uno dei criteri principali – anche se spesso molto sottovalutato – è quello di non discriminazione. Per qualificare una licenza come “open source compliant” non si possono includere clausole contrattuali che limitano o vietano l’uso del software da parte di determinati soggetti o categorie (ad esempio: “vietato l’uso commerciale”, oppure “vietato l’uso da parte di società di un certo tipo o di amministrazioni” ecc.).
Una significativa differenza rispetto alla GPL, invece, è che mentre questa, come detto, ha una “caratteristica virale” (si applica a tutti i software sviluppati con software GPL), una licenza open source impone – come la prima – la necessaria diffusione anche dei sorgenti. Ma non obbliga a “contaminare” il software con le stesse modalità di licenza. In altri termini, viene lasciata all’autore la possibilità di scegliere se ridistribuire anche i sorgenti oppure no.
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