di Andrea Monti – PC Professionale n. 87-88
La progressiva digitalizzabilità di film e musica (per non parlare dei programmi) ha obiettivamente creato grossi problemi alle società che ne detengono i diritti di sfruttamento economico perché ha di molto facilitato il fenomeno della riproduzione abusiva anche su scala industriale.
L’avvento dell’Internet sembrerebbe ulteriormente avere complicato le cose dal momento che avrebbe aggiunto alla facilità di riproduzione anche quella di diffusione. Non stupisce dunque che la Rete sia diventata oggetto di interesse anche per un settore che tradizionalmente non aveva molto da condividere con modem e terminali.
Alcune avvisaglie si erano avute mesi scorsi quando una importante casa editrice musicale aveva lamentato la violazione dei propri diritti da parte dei frequentatori di un newsgroup nel quale alcune persone si scambiavano i testi di alcuni spartiti. Ora è la tecnologia MP3 (un algoritmo di compressione audio che consente di realizzare file anche musicali con poco ingombro) a essere oggetto di un comunicato stampa della FPM (Federazione contro la Pirateria Musicale) che lamenta il proliferare di siti nei quali sarebbero liberamente disponibili brani musicali protetti dalla legge sul diritto d’autore.
Pur condividendo le preoccupazioni legittime espresse nel comunicato stampa in questione (è inutile nascondersi dietro un dito: il settore dell’audiovisivo muove miliardi) devo registrare – ancora una volta – un atteggiamento molto discutibile quando dalla (giusta) necessità di tutelare le proprie ragioni si cerca di far derivare una conseguenza (ingiusta) per utenti e provider.
In particolare, mi riferisco a due passi di questo comunicato, il primo dei quali recita testualmente:
“Stiamo sensibilizzando anche i service provider chiedendo loro di verificare gli abbonati che rendono disponibili file
musicali non autorizzati tramite proprie home page; non vogliamo che il fenomeno, per ora agli inizi, degeneri in maniera incontrollata”
Torna ancora una volta in discussione il delicato tema del limite oltre il quale è possibile configurare una responsabilità diretta o indiretta del provider per le azioni commesse da un proprio utente. Come è facile immaginare l’argomento è complesso, per cui non posso evitare di richiamare brevemente alcune nozioni generali di diritto
Il nostro ordinamento riconosce due categorie di responsabilità quella civile e quella penale; la prima (che ha come conseguenza il “semplice” risarcimento dei danni) si configura ogni volta che qualcuno non rispetta gli impegni assunti (responsabilità contrattuale) o viola dei diritti (responsabilità extra-contrattuale), mentre la seconda sussiste soltanto quando viene commesso un fatto previsto dalla legge come reato e può implicare – oltre al pagamento di una somma – anche una pena detentiva. La differenza fondamentale fra i due tipi di responsabilità sta nel fatto che quella civile ammette che si possa rispondere per il fatto altrui (pensate al risarcimento danni per la circolazione stradale), mentre quella penale è rigida e tassativa: ognuno può essere processato solamente per le proprie azioni.
Nel caso dei provider, dal punto di vista penale le cose sono relativamente semplici: non c’è nessuna norma che impone di monitorare preventivamente (vale a dire: censurare) i contenuti delle pagine dei propri utenti; anzi norme costituzionali (libertà di espressione, diritto di cronaca, libertà di manifestazione del pensiero) vieterebbero queste limitazioni preventive. Altro è il caso del provider che volontariamente mette su un servizio che “tollera” la commissione di illeciti penali, dei quali è a conoscenza, perché allora non ci sarebbero santi: si potrebbe configurare quantomeno una responsabilità per concorso nel reato.
Morale: dal punto di vista penalistico non è possibile incriminare automaticamente un provider per le azioni commesse dagli utenti.
Sotto il profilo civilistico le cose sono un po’ più complesse perché sono previsti casi di colpa per mancato controllo che sembrano potersi applicare automaticamente anche al caso che ci interessa.
Non è così.
Come già da tempo affermato – nel corso del celeberrimo “caso Prodigy” – la responsabilità del provider si configura solo quando – essendosi contrattualmente assunto il compito di monitorare il contenuto dei propri servizi – viene meno all’impegno sottoscritto. Del resto, pensate a quante pagine web e mailing list risiedono sulle macchine di questo o quel provider: se si dovesse risalire, link dopo link, a tutti collegamenti previsti dall’utente si farebbe prima a chiudere bottega!
Certo, dovendo chiedere i danni è molto più facile rivolgersi al provider (fisicamente individuabile e sicuramente con qualcosa da perdere) che ad un oscuro navigatore (peraltro spesso identificabile), e se la legge non lo consente, allora – qualcuno potrebbe essere tentato di dire – cambiamo legge e risolviamo il problema.
Il che porta al secondo passo che trovo culturalmente non condivisibile:
La proliferazione di siti che propongono brani noti in questo formato e che possono essere scaricati in pochi istanti potenzialmente da milioni di utenti e’ un fatto che preoccupa l’industria discografica che ha gia’ chiesto nuove norme a tutela nell’ambito dell’Unione Europea.
A parte che scaricare svariati mega di dati non richiede “pochi istanti” e che affermare cose del genere induce la falsa convinzione che ore di musica possono transitare in un doppino oramai stracarico senza problemi (per inciso, magari la rete avesse prestazioni di questo tipo!), cosa che non è vera, non accetto la solita solfa del “ci vogliono nuove leggi”.
E’ un argomento sul quale credo di avervi annoiato in più di un articolo, ma a quanto pare bisogna tornarci sopra: la legge sul diritto d’autore si applica certamente anche alla Rete, i problemi semmai riguardano la possibilità di individuare l’effettivo responsabile di un’azione, questo dovrebbe essere l’obiettivo da raggiungere. Se – dopo avere verificato che nessuna, ripeto nessuna e sottolineo nessuna – legge vigente consente di ottenere il risultato allora – e solo allora – si può cominciare a pensare a qualcosa d’altro.
Per concludere: la tutela di interessi economici, per quanto degna di rispetto, non può legittimare la richiesta di “soluzioni finali” che per colpire i (pochi) colpevoli arrecano danni incalcolabili a provider e utenti onesti (tanti) colpevoli soltanto di comunicare tramite la rete.
Se Atene piange, Sparta non ride: anche dal punto di vista del software ci sono notizie che danno da pensare.
La BSA (Business Software Alliance) ha recentemente lanciato una campagna diretta a sollecitare la regolarizzazione degli utenti di software non originale, promettendo – in cambio – di non attivare azioni legali nei loro confronti.
Quello che la campagna pubblicitaria non dice è che la “rinuncia” ad azioni legali può valere soltanto per quanto riguarda la richiesta di risarcimento danni (cioè relativa alla responsabilità civile), mentre per quanto riguarda il penale, non c’è rinuncia che tenga.
Mi spiego: il reato di duplicazione abusiva è perseguibile d’ufficio; ciò significa che se l’Autorità Giudiziaria scopre che utilizzate programmi pirata, può aprire senza nessun problema un procedimento penale nei vostri confronti, procedimento che può essere chiuso solo dal giudice. Viceversa nel caso dei reati perseguibili a querela (come le lesioni da incidente stradale) se il danneggiato non segnala il fatto, la magistratura non può intervenire.
C’è di più: immaginate di avere acquistato un computer nel 1993 e di avere acquistato in modo dimostrabile (cioè con fattura, ad esempio) un programma (magari il sistema operativo) nel 1998. Siccome il reato di detenzione abusiva è tecnicamente definito “permanente” ciò significa che i suoi effetti iniziano con l’atto della duplicazione e finiscono con l’acquisto dell’originale; ciò significa che in un eventuale controllo, il riscontro incrociato fra la data di acquisto del computer e quella del software fa scattare automaticamente il procedimento penale, anche se avete regolarizzato (per il futuro, quindi) la vostra posizione.
Ovviamente, questa non è un’istigazione a delinquere ma soltanto un chiarimento (spero riuscito) sulle conseguenze concrete di una proposta che – sulle prime – può tutto sommato apparire conveniente.
Questo dal punto di vista giuridico, mentre da quello degli utenti credo sia spontaneo domandarsi il perché di una campagna informativa alquanto carente… a voi le considerazioni, io vi saluto con una domanda di latina memoria: Fino a quando, Catilina, continuerai ad abusare della nostra pazienza?
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