Né più né meno come uno Stato sovrano, Meta-Facebook annuncia possibili sanzioni contro un altro (non) Stato sovrano, l’Unione Europea, per via delle sue scelte politiche in materia di protezione dei dati personali. Dopo decenni di colpevole inerzia, infatti, qualche autorità nazionale di protezione dei dati (quella austriaca e quella tedesca, nello specifico) si è destata dal torpore e ha scoperto che l’ecosistema di Google crea qualche problema per i diritti dei cittadini degli Stati membri della UE. Meglio tardi che mai? I commenti alla notizia si sono superficialmente concentrati sulla narrativa trita e ritrita della “tutela della privacy” e del rischio che le autorità americane possano accedere ai dati importati da Google. Tuttavia, queste analisi mancano di cogliere alcuni aspetti strutturali della vicenda. Il primo, è la ultraventennale latitanza dei governi nazionali nella costruzione di un ecosistema tecnologico e regolamentare continentale che favorisse le imprese nazionali liberandoci dalla schiavitù elettronica di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech
In Italia, il tema è noto almeno dal 2000, ma gli esecutivi e i parlamenti hanno sempre avuto altro a cui pensare e, anzi, hanno recentemente consegnato parti importanti della didattica, della giustizia e della sanità nelle mani di aziende extracomunitarie. Poco importa che queste aziende abbiano delle “partite IVA europee” con filiali basate da qualche parte nello spazio economico dell’Unione. Alla fine, tutto – dati, soldi e fette di mercato – finisce negli Stati Uniti.
Il secondo aspetto che caratterizza il “preavviso di sanzioni” da parte di Meta-Facebook è l’assenza di alternative per imprese e istituzioni non americane. Se, dalla sera alla mattina, social media, motori di ricerca e strumenti di digital marketing non fossero più disponibili l’economia degli Stati membri subirebbe un colpo pesantissimo. Certo, il mercato delle piattaforme cloud e di analytics è abbastanza popolato e, con in testa la Germania, ci sono prodotti che possono fornire servizi (quasi) equivalenti a quelli nordamericani. NextCloud è un’alternativa open source a GoogleWorkspace, Matomo è il concorrente di Analytics. Francia, Olanda e Germania (ancora lei) hanno i loro motori di ricerca. Tuttavia, nel corso del tempo, i tentativi di costruire motori di ricerca realmente alternativi ad Altavista, Yahoo! e, ovviamente, Google sono falliti miseramente (qualcuno si ricorda di iStella?), non hanno dato i risultati sperati, oppure si appoggiano – a vari livelli di tutela della persona – su Google. E, per quanto riguarda i social network, perché Splinder non esiste più? Quali sono le (reali) alternative basate all’interno dello spazio economico europeo?
Per sintetizzare: le imprese non possono aspettare i comodi delle istituzioni (sovra)nazionali per poter utilizzare strumenti di contatto con i clienti. Le istituzioni pubbliche non si sono nemmeno poste il problema di pensare ad alternative quando si è trattato di scegliere quali strumenti usare per l’interazione con i cittadini. Il risultato è che, nel corso del tempo, ciascuno ha utilizzato quello che il mercato offriva. Una volta stanziati gli investimenti in termini di budget, infrastruttura, personalizzazione delle applicazioni ma, soprattutto, di formazione delle risorse umane, difficilmente si cambierà strada. Costerebbe troppo in termini di soldi e fatica. Si chiama lock-in tecnologico, è una tecnica per l’acquisizione e la conservazione di quote di mercato, ed è utilizzata da sempre; ma nessuna autorità europea – politica o regolamentare – si è mai preoccupata della questione.
Il terzo aspetto, e il più preoccupante, è l’assenza di coolness dei prodotti europei che non sono abbastanza “fighi” da attirare gli utenti. Le alternative europee ai prodotti statunitensi sono, semplicemente, noiose e non parlano alla pancia delle persone. Cercano di convincerle a staccarsi da Facebook, Instagram, Whatsapp e compagnia usando messaggi intimidatori sui “pericoli per i diritti”. Ma sono messaggi vuoti perché non vengono (e non possono essere) compresi.
Dunque, mentre schiere di zelanti “difensori della privacy” (sulla cui buona fede, in qualche caso, è anche lecito dubitare) invadono le colonne dei giornali e i profili dei social media con espressioni corrucciate e messaggi di millenaristica memoria, le persone normali, semplicemente, applicano anche ai servizi di comunicazione elettronica gli stessi schemi culturali che caratterizzano altre componenti della vita sociale. Se il cinema è nordamericano, se la musica è made in USA, se caffè e panini si consumano da Starbucks e da McDonald, se l’American English è diventato una variante dell’Italiano in ogni forma di conversazione pubblica e privata, perché le persone non dovrebbero, coerentemente, preferire la leggerezza delle piattaforme statunitensi rispetto ai noiosi, burocratici e pedanti approcci dei “disinteressati” venditori di diritti fondamentali “made in EU”?
Questa componente antropologica del problema è, rispetto alle altre di cui parla questo articolo, la più rilevante perché evidenzia la vulnerabilità essenziale del Vecchio Continente: l’assenza di una cultura comune. Al di là della narrativa istituzionale, la realtà è che i “cittadini europei” non esistono, come non esistono un “interesse europeo” e, di conseguenza una “nazione europea”. Se non riparte il processo di trasformazione della UE in un soggetto politicamente sovrano , bloccato nel 2005 da Francia e Olanda con il rifiuto di ratificare il trattato che istituiva la Costituzione europea, è impossibile costruire effettivamente una identità culturale condivisa. Fino a quel momento, I am afraid, le autorità (e i loro portavoce “ufficiosi”) potranno continuare a bloccare, vietare e minacciare, ma le persone continueranno a fare ciò che dice la pancia e non (quello che resta del) cervello.
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