L’esclusione di Huawei dalla gara per la costruzione della nuova rete core di Tim sarebbe motivata da scelte di mercato e non da questioni politiche. Ma quale che sia la (vera) ragione, è un fatto preoccupante. L’opinione di Andrea Monti, professore incaricato di Diritto dell’Ordine e della sicurezza pubblica dell’Università di Chieti-Pescara
Un laconico lancio di Reuters informa che “Telecom Italia non ha invitato il gruppo cinese Huawei a partecipare alla gara lanciata nei giorni scorsi per la costruzione della propria rete core 5G in Italia e in Brasile, riferiscono due fonti vicine alla situazione” e, con un’affermazione che suona molto di excusatio non petita riportata da Repubblica.it fonti aziendali rivelano che la scelta “non avrebbe nulla a che vedere con aspetti di natura politica. Ma “riflette solo una scelta industriale che va nell’ottica della diversificazione dei partner”.
Se questa fosse la reale motivazione, ci sarebbe da chiedersi come mai, per esempio, sia stata invitata anche Microsoft (tramite Affirmed Networks), una società recentissimamente acquistata dal colosso di Redmond. Tramite l’infrastruttura cloud Azure, la piattaforma Microsoft Teams e il servizio Office365, infatti, Microsoft è già una presenza estremamente diffusa nelle istituzioni e nelle aziende italiane (basta solo considerare università e giustizia, per rendersi conto del “peso” di questa presenza). Consentire a un’azienda che già controlla tanta parte di settori critici del nostro Paese di estendere il proprio raggio d’azione anche alle infrastrutture “core” significa contribuire alla costruzione di un concreto monopolio verticale che può essere peggiore del rischio (astratto) di potenziale spionaggio da parte di Huawei, del quale ad oggi non risultano, perlomeno pubblicamente, prove certe.
In termini strategici, il controllo dell’esecutivo sull’industria tecnologica è entrato in pianta stabile a far parte dell’arsenale politico degli Stati, e degli Usa in particolare.
Nel 2019, applicando l’executive order 13884 del presidente Donald Trump, Adobe aveva disposto il blocco (poi alleggerito) del funzionamento dei propri software in Venezuela. Una misura, questa, concretamente attuabile grazie al modello commerciale oramai ubiquo, quello basato sulla “attivazione a distanza” del software che rende possibile l’effettivo utilizzo del potere, conferito dalla normativa sul copyright, di revocare a propria discrezione il diritto di usare opere dell’ingegno – e dunque anche il software.
Il caso Schrems-Facebook ha rivelato serie preoccupazioni per l’accesso da parte degli apparati di sicurezza statunitensi a dati di cittadini europei, e quello Google-Huawei è talmente noto da non avere necessità di ulteriori dettagli.
Nella loro diversità, questi casi hanno un tratto comune: essere chiaramente strumenti di pressione e deterrenza della strategia di politica estera e di sicurezza degli Usa. Il che significa, dunque, che nulla esclude l’estensione all’Italia di misure di questo genere, nel caso gli interessi dei due Paesi dovessero, ad un certo punto, divergere (ipotesi nemmeno troppo remota, se solo si considerano le implicazioni per l’Italia del far parte o meno di Belt and Road).
Il problema della scelta operata da Telecom Italia, dunque, non sta nel merito (se veramente ci fossero prove della pericolosità di Huawei, escluderla sarebbe certamente un “atto dovuto”) ma nell’esistenza o meno di una strategica politica più ampia relativa alla protezione degli interessi nazionali italiani.
I casi sono due: l’esclusione di Huawei è stata “discretamente” ispirata dalla Presidenza del Consiglio, oppure Telecom Italia ha assunto in piena autonomia una decisione fondamentale per la sicurezza dello Stato senza consultarsi con in vertici istituzionali.
Nel primo caso, saremmo di fronte a un pericoloso precedente che mette a rischio gli investimenti stranieri in Italia, dal momento che le aziende straniere si troverebbero ad operare in Italia “salvo intese”, nel senso che le scelte industriali compiute basandosi sulla legge italiana potrebbero essere disattese non sulla base di un processo normativo trasparente, ma sulla spinta di occulti “suggerimenti” politici.
Nel secondo caso, il precedente sarebbe ancora più grave: una delle più grandi aziende italiane assume un ruolo centrale nella determinazione delle politiche di sovranità digitale del Paese, decidendo unilateralmente chi sono gli interlocutori e quali sono i rischi accettabili per la sicurezza e gli interessi nazionali.
Quale che sia l’opzione, il risultato è che l’onda lunga della strategia americana nella sua Cold War II evidenzia l’assenza, nel governo italiano, di una visione strategica sulle tecnologie dell’informazione e del proprio ruolo in questo conflitto non (ancora) guerreggiato.
Fare parte di un’alleanza forte come la Nato che non è altrettanto politicamente robusta, non significa subire le scelte degli Usa, ma contribuire a determinarle mettendo sul tavolo della discussione gli interessi italiani.
In altri termini: se il bando italiano di Huawei è frutto di una strategia politica meditata e diretta a conseguire un vantaggio per il nostro Paese, ben venga e, anzi, che venga accelerata. Se, viceversa, si è trattato di una semplice acquiescenza alla richiesta di un Paese del quale siamo alleati, ma che ha come effetto collaterale l’incremento del potere di fatto degli Usa sull’Italia tramite il controllo tecnologico e industriale, forse almeno il Parlamento avrebbe dovuto dire la sua.
L’unica cosa che non possiamo permetterci, è che scelte come quelle a cui stiamo assistendo avvengano senza una strategia chiara.
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