Questo articolo de Il Fatto Quotidiano è illustrato da una foto che ritrae un poliziotto della squadra mobile di Roma e un arrestato la cui immagine è sfocata. Non, come si potrebbe pensare senza vederla, sul viso che pure ha un’espressione ammiccante verso il fotografo, ma sulla mano che è atteggiata nella posa (il pollice alzato) universalmente diventata sinonimo di “mi piace”.
L’espressione del soggetto arrestato è inquietante perchè non è diversa da quella di una star che attraversa il red carpet di un festival cinematografico o di un campione sportivo che celebra una vittoria. E rinforza la percezione sbagliata – ulteriormente distorta da serie televisive – come Narcos e Gomorra – che ci sia un’estetica del male in nome della quale, commettendo gesti atroci, si può diventare famosi.
Questo “pollice retto” attaccato alla mano di una persona comune accusata di un crimine significa, evidentemente, che dalla desiderio di un “momento di gloria” vissuto nella finzione cinematografico/televisiva siamo passati alla brama di una celebrità a tutti i costi, compreso quello di diventare un protagonista della cronaca nera.
Non so chi (se il fotografo o il giornale) abbia compiuto la scelta di sfocare il particolare anatomico dell’arrestato, ma in entrambi i casi non riesco a trovare una spiegazione sensata del genere, se non quella che, oramai, anche i pollici hanno diritto alla loro privacy.
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