Cosa significa la distruzione del campo di riso geneticamente migliorato dell’università Statale di Milano

L’eco della vandalizzazione di un campo nel quale veniva sperimentato un riso geneticamente modificato, si è già propagata nei territori contrapposti di due gruppi di tifosi, quelli che venerano l’ambiente (o meglio, una sua versione ideologica e peculiare), e quelli che venerano la Scienza (o meglio, la divinità laica che fa chic invocare, senza doversi sottomettere a precetti morali e regole di comportamento di una religione rivelata) di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – Italian Tech

Azioni come quella dell’assalto al campetto di riso OGM —perché di OGM si tratta, a prescindere dall’operazione di “rebranding” per disaccoppiare queste ricerche dalla brutta fama di ricerche del genere— non sono affatto nuove. Per esempio, chi ha frequentato il mondo della ricerca (non solo) oncologica e biologica ha più di qualche familiarità con gli assalti agli stabulari e le minacce di singoli o gruppi organizzati che agiscono in nome di un ideale superiore per “liberare” cavie e altri animali utilizzati per cercare cure e comprendere i meccanismi della vita.

Dunque, da un lato gli autonominati difensori del pianeta hanno deciso che quell’esperimento doveva essere fermato con qualsiasi mezzo, violenza inclusa, mentre —dall’altro— gli appartenenti al sacro rito di Nostra Signora della Scienza lanciano anatemi contro i fanatici adoratori di culti (non meno) superstiziosi (dei loro).

In mezzo, i ricercatori che fanno quello per cui hanno studiato e sono pagati: capire come funziona il mondo e fare in modo che di questa conoscenza se ne possa fare un qualche utilizzo (quale, come insegna il Progetto Manhattan, lo decide l’autorità politica).

Gli scienziati, ne è testimone la storia anche recente, non sono certo tutti martiri del libero pensiero come Socrate, Giordano Bruno e, in parte, Galileo. Ma per poter lavorare è fuori discussione debbano sperimentare, e che ogni esperimento porta con sé rischi teorici e danni concreti, che a volte si materializzano più nella percezione che nella realtà, come nel caso dell’inesistente allarme sulla creazione di un buco nero nel Large Hadron Collider del CERN di Ginevra.

Messa in questi termini, la questione trascende il caso specifico dell’ennesimo reato (che rimarrà impunito) commesso in nome del “bene superiore” o della “superiorità di un’idea” perché riguarda la inverosimile convinzione in base alla quale la pratica della Scienza, quella che si scrive con la maiuscola, debba essere consentita solo se non produce danni.

Sicuramente non è concepibile lasciar liberi i ricercatori di fare quello che vogliono senza osservare dei criteri di sicurezza nello sperimentare. Tuttavia, ricorrere in modo indiscriminato a questo principio di precauzione significa non (volere) ammettere che qualsiasi ricerca porta con sé una ineliminabile componente di rischio.

Bisogna, in altri termini, accettare il fatto che dalla ricerca, specie in fase iniziale, possano derivare danni, e che solo in questo modo, una volta raggiunta la maturità, quella certa tecnologia potrà (forse) produrre più effetti positivi che negativi.

In ogni settore, dalla medicina all’energia, dal trasporto alle tecnologie dell’informazione, la ricerca ha chiesto alla società di pagare un prezzo, a volte prendendosi la vita di chi la pratica, a volte causando danni anche alla società pur di progredire.

L’esempio degli enormi consumi energetici richiesti dall’IA (ma anche da blockchain e criptovalute) è paradigmatico: le tecnologie attuali sono ancora ampiamente immature e ci vorrà tempo prima che siano ottimizzate al punto di ridurre l’enorme spreco di energia causato dalla diffusione servizi che le utilizzano. Nel caso specifico, ci sarebbe da chiedersi se questo non sia avvenuto troppo prematuramente e per logiche di tipo finanziario più che per necessità connesse alla ricerca, o quale sia il reale vantaggio di avere a disposizione strumenti che rimbecilliscono chi li usa, mettendoli nelle condizioni di fare domande ma non capire le risposte.

Ma per farlo sarebbe necessario smettere di basare il dibattito pubblico sulla convinzione che basta volere che qualcosa esista per pretendere che esista sul serio. O, meglio, come ha scritto efficacemente Luigi Zoya in La morte del prossimo, basterebbe pensare che non tutti i propri desideri devono per forza trasformarsi in un diritto del quale, per ciò solo, si ha il diritto di imporre il rispetto con qualsiasi mezzo, violenza inclusa.

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