L’evoluzione tecnologica ha reso possibile un sistema di pagamento sganciato dal controllo bancario. E ancora una volta si scatenano polemiche strumentali contro la Rete
di Andrea Monti – PC Professionale febbraio 2014
Ogni volta che una tecnologia diventa di dominio pubblico, nei “professionisti della paura” scatta il riflesso condizionato che li spinge a “informare” (mai virgolettato fu più necessario) il pubblico dei pericoli associati alla nuova diavoleria.
E dunque, secondo la teoria dei “cicli e ricicli” (definizione dell’anaciclosi vichiana nella personale reinterpretazione di una nota soubrette) periodicamente i media si riempiono di allarmi come: “i terroristi ringraziano”, “la polizia non potrà più fare indagini”, “ci vogliono nuove leggi” e il sempreverde “bisogna proteggere i minori”.
E’ successo – tanto per fare qualche esempio – con la crittografia, con le BBS, con l’internet, con il P2P e – oggi – con Bitcoin, il sistema di pagamento elettronico sganciato dal sistema bancario e finanziario tradizionale.
Diciamo subito una cosa: al di là degli aspetti strettamente legali – di cui parleremo fra poco – Bitcoin spaventa il potere costituito perché minaccia di sottrarre al sistema finanziario il controllo globale sulla moneta, restituendo il potere sul valore a chi lo produce. Bitcoin consente, cioè, di creare valore senza dover “passare” tramite una banca (centrale).
In termini concettuali Bitcoin non è nulla di nuovo: è un sistema basato sulla constatazione puramente fattuale che le monete – come l’Euro o il Dollaro – non hanno un valore intrinseco ma puramente convenzionale. In altri termini, la moneta ha valore perché qualcuno glielo riconosce. E’ il motivo, per esempio, per il quale durante la guerra fredda il Rublo o una qualsiasi altra moneta dei paesi della Cortina di ferro non erano accettate in occidente.
“Valevano” all’interno dei loro confini politici, ma al di fuori nessuno era disposto a scambiarle con valuta occidentale che, a sua volta, era la “protagonista” di un fiorente mercato nero.
L’effetto pratico è che noi attribuiamo valore a un pezzo di carta filigranata perchè ci aspettiamo che qualcun altro faccia lo stesso e non perché quel pezzo di carta ha un suo valore intrinseco.
Anche se, per legge, soltanto lo Stato può “battere moneta”, in astratto nulla vieta che qualcuno possa decidere, in piena autonomia, di fare lo stesso. L’importante è che qualcun altro sia disposto ad accettare l’oggetto come strumento di misura del valore. Non è semplice teoria.
Come detto, durante la Guerra fredda le valute occidentali non avevano corso legale nei paesi oltrecortina, ma erano ampiamente accettate e compravendute; e nella recente storia italiana (2000 circa), tanto per rimanere dalle nostre parti, c’è stata la esperienza del Simec, una valuta convenzionale basata sul concetto di proprietà popolare della moneta teorizzato dal giurista Giacinto Auriti, e prontamente oggetto di azioni cautelari da parte della magistratura che hanno interrotto l’esperimento. Gli USA conoscono da tempo il fenomeno della “private money” che è accettato, a condizione che si paghino le tasse.
Fatte queste premesse è innanzi tutto chiaro che il modello Bitcoin è perfettamente coerente da un punto di vista funzionale, ma, e qui le cose si complicano, si dovrebbe riflettere se, al di là del nome, siamo di fronte a una vera e propria moneta, a un titolo di credito (assegno o cambiale), a uno strumento di pagamento (come una carta di credito), o infine a un semplice oggetto di scambio.
Perlomeno in Italia, fino a quando rimane in piedi il presupposto politico-giuridico che battere moneta è una prerogativa dello Stato, Bitcoin non è – tecnicamente – denaro perché la moneta è espressione della sovranità nazionale o (nel caso dell’Euro) sovranazionale. Analogamente, Bitcoin non è un titolo di credito perché i titoli di credito sono definiti dalla legge. E nemmeno lo si può agevolmente equiparare a una carta di credito perché manca il soggetto (l’emittente della carta) che garantisce la transazione. Dunque Bitcoin deve necessariamente rientrare nell’ambito della libertà garantita a ciascuno di scambiare un oggetto (anche immateriale) con qualsiasi altro oggetto, attribuendo all’oggetto in questione un valore convenzionale. Tradotto: se per me va bene ricevere Bitcoin in cambio di servizi o prodotti il “problema” è soltanto mio.
Le vere novità di Bitcoin rispetto alle altre forme di private money (anche elettroniche come la defunta Digicash), dunque, sono la rapidità è l’indipendenza della circolazione da qualsiasi struttura centralizzata e dunque la possibilità effettiva di diffusione globale.
E’ evidente, dunque, che ha poco senso interrogarsi sul fatto se Bitcoin sia legale o meno, o se possa essere tecnicamente qualificato come “moneta” o “carta di credito” perché il dibattito è politico e non giuridico. O forse, meglio, culturale.
La convergenza delle tecnologie digitali e delle infrastrutture di comunicazione ha evoluto il modo di fruizione della musica, dei libri, dell’informazione e – ora – del “valore”. Si tratta solo di scegliere se continuare nel vecchio solco della demonizzazione di quello che ci si rifiuta di conoscere, oppure se capire come sfruttare i vantaggi di una tecnologia che, guarda caso, come l’internet arriva ancora una volta dal mondo dell’open source.
Il tema è serio perché riguarda i fattori che hanno rallentato lo sviluppo intelligente della Rete italiana. Parliamo, fra gli altri, del luddismo che nel corso degli anni ha caratterizzato le scelte politiche in materia di agenda digitale, del ruolo (negativamente) condizionante dell’informazione sempre alla ricerca del “lato oscuro del web” e della crescita in numero dei finti nativi digitali (che in realtà nulla sono se non “utonti” di tecnologie che non comprendono).
Così, mentre ci interroghiamo sulla natura giuridica del profilo Facebook o dell’importanza di oscurare siti internet per proteggere il copyright, il mondo va avanti.
Senza di noi.
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