Repubblica.it, nella persona di Liana Milella, “scopre” il pasticciaccio brutto della data-retention.
Nel dare conto della situazione, la giornalista riporta la posizione (mai troppo tardiva) del Garante per la protezione dei dati personali che si lamenta della durata eccessiva imposta dal Parlamento (dimenticando di ricordare che la Corte europea ha dichiarato illegittima la data-retention indiscriminata a prescindere dalla durata della conservazione) e quella di vari esponenti istituzionali che difendono il provvedimento.
Nessuno, però, Milella compresa, spiega che la data-retention in Italia non è fatta dallo Stato ma da soggetti privati, gli Internet Provider, che sono costretti a investire somme rilevanti per osservare un obbligo che lo Stato non retribuisce (al contrario di quanto accade, per esempio, con le intercettazioni). Come dire… si paga il conto con la carta di credito altrui.
Nessuno, Milella compresa, ricorda che lo scorso 30 giugno il Parlamento aveva lasciato scadere il termine straordinario per la conservazione dei dati, provocando la cancellazione di un enorme quantità di informazioni utili alle indagini.
E allora, la domanda sorge spontanea: se la data-retention è così importante, perché il Parlamento ha consentito, con la sua inerzia, la distruzione dei dati di traffico relativi al periodo 30 giugno 2015-30 giugno 2016?
Un complottista si chiederebbe quali indagini giudiziarie sono state compromesse da questa cancellazione massiva.
Un giornalista potrebbe cercare di capire cosa sia successo a ridosso di quel tristemente famoso 30 giugno 2017.
Io mi limito a constatare la sciatteria che le istituzioni, in questo frangente, hanno dimostrato.
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