È di interessante attualità che sia pubblicata, alla fine di gennaio 2011, una nuova traduzione italiana di un “classico” su un tema sempre più preoccupante: “perché le cose non funzionano”. È un testo ingiustamente dimenticato (in Italia non ha mai avuto la diffusione che merita). Molte situazioni di oggi confermano la sua vigorosa validità.
Rischia di essere scambiato, da un osservatore distratto, per un trattato di medicina. Ma non si tratta della paralysis agitans che prende il nome da James Parkinson. Sono altri i malanni diagnosticati da Cyril Northcote Parkinson: le disfunzioni delle organizzazioni.
Potremmo osservare che, curiosamente, le sindromi organizzative somigliano un po’ a tremori tendenti alla paralisi. Ma è meglio non fare confusione.
Vale la pena di leggerlo come un libro nuovo, anche se la sua prima edizione inglese risale al 1957. Per tanti che non lo lo conoscono – ma anche per chi, come me, l’aveva letto molti anni fa e può riscoprirne il valore in circostanze diverse. Alla legge di Parkinson è dedicato il capitolo 5 di Il potere della stupidità.
Già all’epoca della sua prima pubblicazione era considerato irriverente, irritante, sconcertante – il Financial Times lo definiva “diabolico”. Non piace agli accademici per il suo stile vivace e informale – e la sua incisiva concretezza. Ai burocrati per la spietata denuncia della loro inefficienza. Agli economisti perché rivela le debolezze della loro discutibile dottrina.
Nella sua prefazione Parkinson propone che i trattati di economia siano «classificati come opere di fantasia », letture amene da tenere nelle biblioteche «confuse con volumi che trattano di uomini-scimmia e navi spaziali». Oggi non potrebbero più collocarsi neppure in quello scaffale. Gli studi sull’origine della nostra specie hanno fatto importanti progressi (vedi L’evoluzione dell’evoluzione). Le esplorazioni spaziali sono ancora all’inizio, ma non sono più solo fantasia. Mentre le teorie economiche sono sempre più fallimentari.
Neppure Parkinson aveva potuto prevedere gli elogi trionfali che per decenni hanno accompagnato l’epidemia della speculazione finanziaria, con conseguenze catastrofiche tuttora irrisolte. Ma molti dei problemi di oggi si potrebbero evitare, o risolvere, se le sue osservazioni fossero meglio conosciute e capite.
È un libro “molto inglese”, per stile e contenuti. Per l’umorismo e l’ironia con cui affronta temi drammaticamente seri. Per la specificità britannica di molti fra gli esempi analizzati, che tuttavia nulla toglie alla validità generale dei concetti.
Con appassionata dedizione, Andrea Monti ha fatto tutto da solo. Ha tradotto il testo di Parkinson, l’ha utilmente annotato e commentato, – e, come editore, l’ha pubblicato. Auguro a questa coraggiosa avventura un largo successo, perché una dose vigorosa di buon senso è ciò che manca fra tante elucubrazioni confuse e devianti.
A trarne il maggiore vantaggio saranno i lettori. Non solo chi ha il difficile compito di gestire un’organizzazione, ma anche ogni persona che ci lavora. E, più generalmente, tutti, perché molti aspetti della nostra vita sono influenzati dal funzionamento (e dalle disfunzioni) di ogni genere di strutture organizzative.
Solo alla fine del libro, in appendice, dopo una serie di interessanti citazioni, c’è un mio piccolo contributo. Brevi osservazioni su Cinquant’anni dopo – cioè su come i problemi si sono evoluti, spesso in peggio, dagli studi di Parkinson ai nostri giorni.
Per chi non ama la critica e l’autocritica – o si illude di essere infallibile – La legge di Parkinson è una lettura ostica e fastidiosa. Ma per tutte le persone che preferiscono la chiarezza è uno strumento per capire. È evidente che, troppo spesso, “le cose non funzionano”. Rimediare non è facile, ma rassegnarsi è pericoloso. Parkinson ci aiuta a conoscere le cause del problema.
A modo suo, è un libro divertente. Ma non è solo satira. È soprattutto uno stimolo a pensare. Ci aiuta a capire i problemi e la loro origine. Non offre soluzioni – sta a noi, lettori, cercare di trovarle. Ma un’efficace diagnosi è un buon punto di partenza.
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Recensione di Giancarlo Livraghi
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